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BASEBALL PAOLO 2 K 1
 

 

 

 

 

del 1927

La più grande suadra di tutti i tempi

Uno dei discorsi che ricorrono maggiormante nelle "Hot Stove Leagues" vale a dire nelle chiacchiere che si fanno in inverno, magari intorno al camino, naturalmente parlando di baseball, riguarda l'annoso dilemma: "Quale squadra è stata la più forte, in assoluto, nella storia del Gioco?". Molti tra i cronisti con maggior esperienza a questa domanda rispondono senza esitazione: gli Yankees del 1927. Dopo aver perso le World Series del '26 i giocatori si presentarono al training della nuova stagione con un nuovo spirito di rivincita. Pochi i cambi rispetto all'anno precedente: Ruth, Combs e Meusel agli esterni, Gehrig, Lazzeri, Koenig e Duncan interni. A dar manforte ai due ricevitori Bengough e Collins era stato ingaggiato Grabowski. Le riserve all'esterno erano Durst e Pachal, per gli interni Gazella, Morehart e Wera. Hoyt, Pennock, Shoker e Pipgras erano i lanciatori partenti con l'apporto di Ruether, Thomas, Shawkey e Giard come rilievi.

A questo staff era stato aggiunto uno dei giocatori più "spassosi" cha abbia mai vestito la casacca degli Yankees, Wiley Moore. Era uno "sporco" concittadino dell'Oklhoma e nessuno sapeva esattamente la sua età. Lui asseriva di aver 28 anni, ma nessuno ci credeva, come minimo doveva aver superato la trentina. Massiccio, piuttosto lento, divenne subito un beniamino della squadra. Per sei anni aveva vegetato nelle Minor senza possibilità apparente di compiere il grande salto; non appena guadagnava qualche soldo correva a casa per metterlo in banca e comprarsi qualche attrezzo per la fattoria. Alla fine della stagione del 1926 (30 vittorie e 4 sconfitte per il Greenville nella South Atlantic League) sembrava volesse tornare definitivamente a casa, poi la chiamata inaspettata degli Yankees e la grande avventura in Major League. Il suo repertorio di lanci non era molto vario: una sinker, una veloce bassa che rompeva leggermente all'interno, un controllo eccezionale e nervi d'acciaio o, come diceva qualcuno, assolutamente privo di nervi. Moore pensava anche di avere una bella curva, ma il catcher non gliela faceva mai tirare asserendo che non girava nenanche di un millimetro. Come battitore aveva uno stile perfetto ed uno swing perentorio, peccato che girasse la mazza sempre nello stesso punto per cui riusciva ad incocciare la palla quando il pitcher, sbagliandosi, gliela inseriva nella traiettoria del suo bastone. Babe Ruth, dopo averlo visto nel box la prima volta in allenamento scommise con lui 300 $ contro 100 che non sarebbe riuscito a battere più di tre valide in tutta la stagione. Moore chiuse la stagione con cinque e, dopo aver riscosso la vincita, mandò un bigliettino di ringraziamento a Ruth nel quale gli spiegava che, con i soldi,aveva comprato due muli, chiamandoli uno Babe e l'altro Ruth.

Una volta iniziata la stagione fu subito chiaro che niente e nessuno poteva fermare questi terribili Yankees; Ruth, Meusel, Gehrig e Lazzari massacravano i lanciatori avversari, non c'era partita in cui qualcuno non picchiasse un fuoricampo chilometrico. Il braccio di Hoyt, dopo i dolori del'26, era tornato in perfetta forma, mentre si segnalava sempre di più il giovane Pipgras ben coadiuvato dall'esperienza dei ricevitori. Se qualcosa andava storto, poi, c'era sempre Moore ottimo rilievo. la tremenda potenza del line up, comunque, lasciava in secondo piano i capolavori della difesa e la bravura del lanciatori. Per il 4 luglio il campionto era già deciso, nel doppio scontro diretto contri i Senators, l'unico team che poteva rimanere in corsa con loro, i risultati furono più pesanti di una sentenza capitale: 12 a 1 e 21 a 1.

Ruth stava battendo il record di 59 homer ottenuto nel '21 ben coadiuvato da Gehrig con il quale formava la più forte cominazione di bombers, mai scesa su un diamante. L'attacco yankees aveva una particolarità: iniziava lentamente, per poi scaternarsi verso metà partita. Combs battezzò questa caratteristica "l'accensione delle 5", l'ora appunto in cui solitamente l'attacco dava fuoco alle polveri (allora si giocava solo di pomeriggio). L'entusiasmo attorno alla squadra era incredibile. Praticamente i giocatori non avevano un giorno di riposo: ogni ritaglio di tempo era dedicato ad amichevoli in ogni parte del paese. La squadra viveva praticamente in treno e come un segnale misterioso, lungo il tragitto, si diffondeva subito al notizia del passaggio degli Yankees e, sopratutto, di Ruth. C'era gente ad ogni fermata e lui, il re, non li deludeva mai. Sempre pronto ad interrompere una partita a carte, la cena ed anche alzarsi dal letto per salutare i tifosi, stringere mani e firmare autografi. Questo uno dei segreti della sua enorme popolarità, mai più raggiunta da nessuno, nè in politica, nè tantomeno nello sport. Ruth, inoltre non aveva perso l'entusiasmo. Per lui un fuoricampo era un fuoricampo, fosse battuto nelle World Series o in un campo polveroso del Missouri durante un'esibizione. Il caratteristico schiocco della mazza, la vista della palla che si perdeva nel cielo, esaltavano Babe non meno dei suoi fans. La gente da lui si aspettava solo fuoricampo e lui non scendeva a compromessi: anche nelle giornate no girava il bastone per mandare la palla in orbita, mai solo per cercare il contatto e la validina. Durante un'amichevole dimostrativa nel carcere si Sing Sing, Ruth battè ben due volte fuori dal campo ed oltre il muro di recinzione mandando in visibilio i detenuti e facendo ammettere al direttore: "Questa è la prima volta che qualcosa riesce ad uscire da qui".

Con tante superstar il manager Huggins riuscì ad avere ugualmente un'atmosfera perfetta, proprio perchè i giocatori erani i primi a divertirsi di quel che facevano. Gli scherzi di quella stagione furono memorabili. Una volta in un trasferimento a Boston, la squadra arrivò in ritardo alla stazione e salì sul vagone di coda per raggiungere le tre carrozze riservate alla squadra in testa al convoglio. Nel tragitto per arrivarci gli Yankees dovettero attraversare tre carrozza letto, con gli occupanti già a dormire e ... le scarpe fuori dagli scompartimenti. Bene, una volta passata tutta la squadra le scarpe erano sparite, tutte ammonticchiatee mescolate in fondo alla terza carrozza. Ci vollero ore per recuperare le proprie scarpe, ma i passeggeri non si arrabbiarono, agli Yankees si perdonava questo ed altro.

Vincere rimaneva, però, la cosa più importante. La squadra cercava di farlo sempre ed in ogni caso: chiuse con un record di 110 e 44. Ruth picchiò 60 homers con una media di .356. Gehrig chiuse con .373e 47 HR. Hoyt ottenne il maggior numero di vittorie (22) ed il nostro amico Moore riuscì ad aver il miglior PGL con 2.28. Nella National League vinsero i Pirates dopo una lunga battaglia con i Cardinals. Per la partita d'apertura il manager Huggins ricorse ad una tattita "psicologica". Ordinò a Hoyt (che sarebbe stato il partente l'indomani) di lanciare dieci minuti di batting practice, solo mettendo la palla dentro, in mezzo al piatto. Furono dieci minuti terribili: il line up Yankees si scatenò in un vero e proprio bombardamento. "Lo schiocco dele mazze sulla palla era continuo, selvaggio, martellante - ricorda Frank Graham - non c'era il tempo di guardare una palla che volava fuori già un'altra colpiva rumorosamente il tabellone". "Ma che fanno? Ci vogliono demolire lo stadio?" mormoravano perplessi i tifosi, mentre gli avversari erano come paralizzati a guardare cosa li aspettava. "Non vorrei essere nei panni di quel povero pitcher" si sentiva mormorare in tribuna. Wagner, la stella dei Pirates, interruppe l'intervista che stava concedendo per sussurrare con un filo di voce: "... Gesù !!". Le due partite di Pittsburgh si chiusero in favore degli Yankees (5 a 4 e 6 a 2). Sul treno di ritorno a New York, uno dei giornalisti al seguito commentò: "Se non vincete le prossime due partite mi sparo!!". Al che il solito Lazzeri ribattè: "Se non le vinciamo puoi pure sparare per primo a me!". Per la terza partita come partente fu scelto Pennock, giusto per sfatare il mito che "nessun mancino avrebbe potuto battere i Pirates". "Evidentemente nella National non hanno mancini come i nostri" scherzò Meusel dopo l'8 a 1 con cui gli Yankees liquidarono gli avversari. Per l'ultima gara, con i Pirates decisi a non perdere per cappotto, il partente fu proprio Moore, per premiarlo del suo magnifico lavoro di rilievo nel corso di tutta la stagione. Nella seconda parte del nono il punteggio era tre pari: Combs ottenne la base per balls e Koening piazzò un bunt singolo. Il lancio pazzo di Mjlius spinse i due rispettivamente in terza e seconda. A Ruth venne data la base intenzionale: Con nessun out e Gehrig seguito da Meusel in battuta il gioco sembrava fatto. Con la forza della disperazione, spingendo al massimo la sua veloce, Mjlius riuscì invece a lascarli al piatto entrambi: Ma la pressione eccessiva lasciò il segno quando sul battitore successivo, Tony Lazzeri, Mjlius perse il controllo della palla permettendo a Combs di arrivare a casa con la vittoria nella più fantastica e indimenticabile stagione del baseball di tutti i tempi. Nel suo box, il collonnello Ruppert, propietario degli Yankees, non potè nascondere la commozione: i suoi ragazzi gli avevano fatto definitivamente dimenticare la grande delusione dell'ottobre dell'anno prima.

World Series 1927

 

 

Il baseball a Chicago: North vs South

Ancora abbagliati dal fascino newyorkese, ci apprestiamo a riprendere il nostro viaggio tra i più prestigiosi diamanti d'America. Ah, munitevi di cappotto perché alloggeremo in riva al lago Michigan; siamo nella "Windy City", Chicago! Nel 1869 Cincinnati mosse la prima pedina nella corsa al professionismo e, come ben sappiamo, le città dell'est più importanti non rimasero a guardare. Investirono nel baseball per prime Boston e Chicago. Ci soffermeremo sulla seconda ma ben presto sapremo di più anche sulla storia del baseball nella metropoli del Massachusetts. Chicago viveva anni di grande espansione, grazie all'immigrazione e allo sviluppo industriale. Contendeva a New York i migliori risultati nei settori più svariati. Fu certo, però, che nella "corsa al professionismo" tagliò il traguardo per prima Chicago. A difendere le sorti della città fu una compagine di atleti vestiti interamente di bianco: nacquero nel 1871 i "White Stockings". La squadra si mostrò presto competitiva durante l'estate, ma l'8 ottobre 1871 il destino scese subito in campo e rallentò la corsa dei "Bianchi". Nella zona sud della città, a Dekoven Street, presso il negozio di Mrs O'Leary, scoppiò un incendio che la cronaca ricorda come il "Grande Incendio di Chicago". Le fiamme produssero notevoli danni a gran parte della città e videro gli audaci pompieri del tempo impegnati in difficilissimi interventi su edifici costruiti perlopiù in legno. Il campo da gioco della squadra fu spazzato via, le attrezzature e le uniformi ridotte in cenere. Pur riuscendo a terminare il campionato con uniformi prese in prestito dagli avversari, la squadra dovette rinunciare ai campionati successivi, mentre l'intera città si riprendeva dal disastro. Riprese a gareggiare nel campionato del 1874 e dopo il 1875 fece notevoli investimenti acquistando il lanciatore Al Spalding da Boston ed il prima base Adrian "Cap" Anson da Philadelphia. E, sempre nel '75, fu proprio il neo presidente della squadra, William Hulbert, a rilanciare le sorti della National Association nella nuova National League. Gli sforzi economici si rivelarono azzeccati. Già nel 1876 "Cap" Anson, che rivestiva il ruolo di giocatore-manager, guidò la squadra alla conquista del primo pennant della sua storia, al quale ne seguirono altri 5 nel decennio '80-'90. Nel 1880 ottennero lo strabiliante record di 67-17. Dopo questi successi, Al Spalding, altra stella della squadra, si ritirò per dedicarsi alla promozione del suo omonimo marchio di abbigliamento (conosciuto tutt'oggi). Indiscussa star del diamante, Anson è oggi ricordato più che altro per essere stato un estremo sostenitore della "color line", che consisteva nell'impedire ai giocatori di colore di partecipare allo stesso campionato dei bianchi. Nel 1882 irruppe una nuova major league, l'American Association, e i White Stockings si trovarono ad affrontare in finale per tre anni di fila i St. Louis Browns. La rivalità continuò anche quando St. Louis passò alla National League nel 1892. Il nomignolo di White Stockings accompagnò la squadra di Chicago fino al 1889 e passò il testimone a dei nuovi soprannomi che la gente affibbiava ai giocatori per le strade della città. Colts e Orphans (quando Anson se ne andò) furono tra i più gettonati. Tra i successi degli anni '80 si spense lentamente il secolo, mentre il '900 si presentava agli occhi degli abitanti di Chicago ricco di novità... Tra il 1900 e il 1902, infatti, il baseball americano era in gran fermento. Un nuova lega contrastava il monopolio della National League. L'American Association, piazzando alcune squadre nelle città dell'est che già godevano dello spettacolo del professionismo, tentò di rubare il palcoscenico alla National League. Dopo Philadelphia, New York e Boston, a Chicago nacque una squadra tra le più controverse della storia, destinata di lì a poco a sconvolgere il baseball americano. Dietro al progetto di una seconda squadra di Chicago vi era Charles Albert Comiskey. Nativo proprio di Chigago, Comiskey giocava e gestiva dal 1882 i St. Louis Brown Stockings dell'American Association. Era stato il primo manager ad ottenere quattro pennant in altrettante edizioni consecutive della American Association. Nel 1890 passò ai Chicago Pirates della Players League (vedi Baseball Begins: la storia del baseball nell'800) e concluse la carriera nel 1894 con i Cincinnati Reds della NL. Nel 1900 Comiskey rientrò nel panorama sportivo sotto le insolite vesti di affarista. Acquistò i Sioux City, una squadra della Western League. La lega di Ban Johnson, come molte altre nel periodo, si stava seriamente organizzando per lanciare un serio attacco allo strapotere della National League. Ma come avrete certamente capito dai racconti scorsi, la pedina fondamentale era giocare il baseball nell'est o, ancor meglio, nelle stesse città della National League. La prima mossa di Comiskey fu quella di spostare la squadra a St. Paul, Minnesota. Quando la Western League mutò nel 1900 in American League soppiantando l'American Association, Comiskey intravide nel South Side di Chicago l'opportunità di lanciare definitivamente la sua squadra. Originariamente i nuovi protagonisti di Chicago furono battezzati ricalcando il nome originale di White Stockings, dal momento che dal 1902 il Daily News aveva ufficialmente definito i primi White Stockings del North Side come Chicago Cubs. Nel 1903 fu invece il Tribune ad abbreviare White Stockings in White Sox. Proprio come a New York, il baseball divenne sinonimo di appartenenza geografica. Divisi da Madison Avenue, Cubs e White Sox difendevano rispettivamente northsiders e southsiders. La rivalità poteva avere inizio!

La maledizione

Gli White Sox iniziarono le competizioni come meglio non si poteva. Vinsero sorprendentemente i pennant del 1900 e del 1901 anche grazie all'acquisizione di giocatori importanti della National League. La risposta dei cugini del North Side fu racchiusa nel trio difensivo più famoso del baseball: Joe Tinker, Johnny Evers, Frank Chance, che formarono assieme al terza base Harry Steinfeldt, il nucleo di una delle squadre più dominanti del baseball americano. Il trio fu così decisivo che i libri di baseball utilizzano l'espressione "Tinker to Evers to Chance" come sinonimo di un particolare affiatamento della squadra nella fase difensiva. E, per crivellare di strike i battitori avversari, i Cubs potevano contare anche su un lanciatore infallibile quale Morderai "Three Finger" Brown, soprannominato appunto "tre dita" per aver perso da ragazzo gran parte dell'indice in una macchina agricola. Il lancio a tre dita garantiva alla pallina un effetto spesso imprevedibile per chi si apprestava a battere. Giocando in campionati diversi, Cubs e White Sox non si incontravano mai durante la stagione regolare. L'unica possibilità era quella di vederle contemporaneamente campioni di National League e American League, per poi accedere alle famigerate World Series. Chicago non dovette aspettare a lungo perché ciò accadesse. Le World Series del 1906 furono il teatro della sfida che tutti aspettavano. Sia Cubs che White Sox giocavano un baseball eccellente. La maggior esperienza e la formidabile difesa rendevano i Cubs indubitabilmente la squadra favorita. Ma chi scommise sui White Sox ne uscì con le tasche piene e South Chicago potè così festeggiare il suo primo titolo. L'amarezza dei Cubs fu tramutata in rabbia agonistica pura. Chicago festeggiò i Cubs campioni nel 1907 e nel 1908. Nel South Side invece, dopo l'impresa del 1906, si pensava a dare un'identità forte alla squadra. Non poteva esserci identità forte senza uno stadio, così nel 1910 venne costruito il Comiskey Park. L'impianto rispose alle esigenze del pubblico, ma già dal 1914 dovette assistere al costante esodo di spettatori dovuto alla minaccia dell'ennesima nuova lega concorrente. La Federal League mise in seria difficoltà l'esistenza dei Cubs e dei White Sox, poiché a Chicago suscitò un interesse imprevisto. La causa giudiziaria persa nel 1916 dalla Federal League ne provocò anche il suo fallimento. Per i Cubs la scomparsa della Federal League fu doppiamente vantaggiosa. Un certo Charles Weegham, già proprietario di una squadra della Federal League, rilevò la dirigenza dei Cubs e spostò la squadra in nuovo stadio che lui stesso aveva fatto costruire all'angolo tra Clark e Addison Street. I White Sox, vincitori dell'American League pennant, divennero per la seconda volta campioni del mondo nel 1917. I Cubs ottennero la vittoria del National League pennant nel 1918, ma alle World Series dovettero arrendersi alla classe di Babe Ruth dei Boston Red Sox. Ed ecco il 1919, anno nero per eccellenza del baseball... I White Sox, ancora campioni dell'American League grazie a giocatori di classe indiscussa, affrontarono alle World Series i Cincinnati Reds. La forza dei White Sox avrebbe assicurato ai southsiders di Chicago un altro titolo... Ma non avevano fatto i conti con i loro giocatori. Con errori assurdi in attacco e difesa, i White Sox consegnarono, nell'incredulità più totale, serie e titolo a Cincinnati. A Chicago era accaduto qualcosa che non quadrava agli occhi della critica. Quadrava invece tutto nelle tasche di aguzzini e scommettitori clandestini. La frode era evidente. La giustizia sportiva invocata a gran voce dal pubblico americano non si fece attendere e una commissione d'inchiesta giudicò colpevoli di "intentional cospiracy" ben otto giocatori: Arnlod "Chick" Gandil, "Shoeless" Joe Jackson, Eddie Cicotte, George "Buck" Weaver, Fred McMullin, Charles "Swede" Risberg, Claude "Lefty" Williams e Oscar "Happy" Felsch. Il giudice federale (nonché neo-commisioner della MLB ) Kenesaw Mountain Landis li squalificò a vita dal mondo del baseball! Una menzione particolare va dedicata a Shoeless" Joe Jackson. Soprannominato "Shoeless", per essersi presentato al turno di battuta senza scarpe, è considerato tutt'oggi uno dei giocatori più importanti che il baseball abbia mai avuto. Lo stesso Babe Ruth disse di essersi ispirato alle tecniche di battuta di Jackson. Da sempre la sua figura di generoso beniamino del pubblico stride con lo scandalo del 1919. Memorabile è la frase di un ragazzino verso il suo campione Joe all'uscita del tribunale "Say it ain't so, Joe!". C'è chi lo ricorda (nei libri) come un ragazzo dallo spirito sincero e pur avendo ammesso in lacrime la sua colpevolezza davanti alla giuria, molti credono che se "i cospiratori" non fossero riusciti a convincere (anche se parzialmente) Jackson, anche con sette giocatori venduti le World Series sarebbero finite a Chicago. Ma la storia è andata diversamente e ancor oggi i pregiudizi a causa del misfatto negano a Joe Jackson di entrare nella Hall of Fame. Dietro all'imbroglio stavano principalmente Arnlod "Chick" Gandil e Joseph Sullivan, professionista nel campo delle scommesse clandestine che, grazie al suo ricchissimo "collega" newyorkese, Arnold Rothstein, aveva recuperato $100.000 dollari per ciascun giocatore. Lo scandalo che aveva macchiato il valore del baseball scosse l'America. Certo, nel baseball circolavano da anni dollari a palate, ma scambiare l'onore di uno sport nazionale per delle scommesse clandestine era troppo. Forse ingiustamente, a pagare per tutto fu solo Chicago, sponda sud. I giornali della città, così come li avevano battezzati White Sox, li avrebbero etichettati d'ora in poi come "Black Sox". Una marchio destinato a durare... Mentre nel South Side ci si riprendeva (per quanto possibile) dallo shock, i Cubs accolsero nel proprio management un nuovo azionista di maggioranza. Era niente meno che "l'impresario" del chewing-gum William Wrigley, il quale, assieme all'astuto William Veeck Sr., diede vita ad una compagine estremamente competitiva. Dopo un periodo di scarsi successi, i Cubs, tornarono alla conquista del National League pennant nel 1929 grazie al superbo rendimento di Rogers Hornsby. Da quella data iniziò per i Cubs il detto "every three years" in quanto ogni tre anni la squadra vinceva il pennant e si presentava alle World Series. Accadde nel '32, '35 e '38 ma in tutte e quattro le occasioni i Cubs ne uscirono sconfitti. Nel '32 incontrarono sulla loro strada ancora Babe Ruth, questa volta però in maglia Yankees. Alla fine degli anni trenta morirono i double-Bills (Wrigley e Veeck) e sostanzialmente terminò il periodo felice dei Cubs. Il successo alle World Series mancava ormai da trent'anni e le prospettive non erano certo delle migliori. La dirigenza dei Cubs, capeggiata dal figlio di Wrigley, puntava decisamente a rilanciare il prestigio della squadra. Non riuscendovi sportivamente, tentò di ospitare nel 1941 i primi incontri notturni di baseball grazie all'acquisto di costose apparecchiature di illuminazione. Ma nemmeno questo tentativo andò in porto. Ad intralciare il progetto fu infatti un altro "porto", quello di Pearl Harbor, che sancì l'entrata in guerra degli USA. Wrigley donò all'esercito americano le sofisticate attrezzature elettriche posticipando a malincuore il gioco notturno nel North Side. Dopo anni di bel gioco e successi, Chicago si trova così catapultata in un periodo molto avaro di soddisfazioni. I White Sox viaggiavano da diversi anni nelle retrovie dell American League e i Cubs stentavano a trovare continuità di risultati dopo diverse occasioni mancate. Tutto ciò sapeva molto di destino...

Una luce in fondo al tunnel

Nel South Side venne a mancare Charles Comiskey. Spariva dalla scena il personaggio chiave della storia dei White Sox, colui che era riuscito a portare l'American League a Chicago. In realtà Comiskey non fu mai del tutto amato a in città. Una leggenda infatti racconta che il termine "Black Sox" iniziò a circolare al Comiskey Park ben prima delle World Series vendute, per descrivere la taccagneria di Comiskey. Non intendendo sborsare dollari per la lavanderia costrinse i giocatori a pagare (o lavare) le uniformi di proprio pugno. Al rifiuto dei giocatori seguirono partite su partite con divise sempre più "nere". Leggenda o meno, nel South Side, la paura della maledizione cresceva anno dopo anno, mentre chi nel North Side credeva invece di essere in regola con il destino, non aveva fatto i conti con un caprone... Si, avete letto bene, un caprone. William Sianis era proprietario di due cose: una taverna di Chicago e un caprone domestico. Tifoso da prima fila dei Cubs, Sianis portò il suo caprone ad assistere alla quarta gara delle World Series al Wrigley Field. I Cubs partecipavano alla "Classica d'Autunno" contro i St. Louis Cardinals dopo tredici anni di assenza. Il fattaccio è tutto da ridere (ridono meno i tifosi dei Cubs!). Chi stava attorno a Sianis iniziò a lamentarsi per l'odore del caprone. L'usciere del Wrigley Field costrinse l'animale, che pure era in regola con il biglietto, ad uscire. Sianis preferì abbandonare i Cubs pur di non lasciare il caprone solo. All'uscita Sianis giurò che, a causa della sua cacciata, i Cubs mai più sarebbero tornati alle World Series. North Side Chicago si accorse di aver commesso qualcosa di grosso quando vide gli avversari vincere quella stessa partita e le World Series qualche giorno dopo. Da lì in avanti i Cubs fecero compagnia ai cugini nel mondo sportivo dell'anonimato. Nel 1959, Jerry Brickhouse, storico speaker del Comiskey Park, gridò ai quattro venti la storica frase "Un attesa lunga quarant'anni è finita!". I White Sox, con l'American League pennant in tasca, erano pronti a tornare alle World Series contro i Dodgers per dimostrare al mondo che il vento era cambiato. Il vento in realtà tirava sempre nella stessa direzione ed i White Sox persero in un colpo solo Serie e volontà di combattere. Per Chicago nulla vi è da raccontare fino al 1984. Sportivamente avrebbe avuto più senso descrivere le gesta ed i numeri di qualche generoso campione che calcò contro il fato i diamanti del Comiskey o del Wrigley, ma se da un caprone dipendeva il destino di una squadra, che di un caprone si racconti! Nel 1984 il caprone esorcizzante venne portato alla partita inaugurale. I Cubs vinsero fatalmente la divisione, ma persero con i San Diego Padres nelle semifinali per l'AL pennant. Nel 1988 si arrivò al limite della comicità: la dirigenza dei Cubs riuscì (o quasi) a realizzare un vecchio sogno di Comiskey figlio ed ospitare una gara notturna. Con l'ordinanza permissiva del City Council, la gara fu pianificata in una data quanto mai curiosa, l'8/8/88... Piovve a dirotto, partita sospesa e rinviata alla sera dopo. Nel 1994 ritornò il caprone. Venne portato ancora al Wrigley per risollevare la striscia di 12 sconfitte casalinghe. L'animale fece il suo dovere, i Cubs vinsero la partita ma, con la squadra in grande ripresa, la Major League Baseball chiuse la stagione per sciopero. Il 2003 fu un'altra stagione dai risvolti inquietanti. Chicago Cubs e Florida Marlins si giocavano il posto per le World Series: Moses Alou dei Cubs si lanciò in una presa (al limite del diamante) per eliminare al volo il battitore avversario, ma lungo il muro di cinta comparve all'improvviso un guantone di un tifoso dei Cubs che irresistibilmente allungò il braccio e... Presa! Fuoricampo! I Marlins vinsero partita e pennant e andarono alle World Series per vincere pure quelle. L'episodio si commenta da solo... E arriviamo al 2005 anno che si è divorato in un sol boccone buona parte della malasorte di Chicago. In realtà anche il 2004 è stato per il baseball un anno da sottolineare dieci volte, ma vi voglio tenere sulle spine (per il prossimo racconto). Il 2005 vede, dopo 46 anni di astinenza, i White Sox alle World Series! Ne avrete sicuramente sentito parlare nei giornali italiani (che però si occupano di baseball solo per riempire la colonnina vuota sbagliando nomi, date, etc.), ma se non ne siete al corrente allora sappiate che i White Sox sono i nuovi campioni in carica della Major League Baseball, 88 anni dopo l'ultimo titolo del '17. Dopo un'attesa eterna, una condanna ad essere "Black Sox" forse inestinguibile... Ora il vento è decisamente cambiato! Pochi istanti prima di morire "Shoeless Joe Jackson" disse: Fra poco incontrerò il più grande giudice di tutti e Lui sa che sono innocente! Chissà che la vittoria dei White Sox non spalanchi definitivamente per Jackson anche le porte della Hall of Fame sbiancandolo dall'infame 1919. Il South Side si presenta alla nuova stagione a testa alta, libero dal peso del passato. Che sia quindi l'anno dei Cubs? Spariranno anche per loro 98 anni di attesa? O la persecuzione li costringerà ad attendere ancora? Chicago merita veramente che entrambe le squadre abbiano la loro rivincita con la malasorte. L'apporto che la città diede per la crescita del baseball americano non fu inferiore a quello di New York o Boston, ed è tempo che l'alloro ritorni anche nel North Side. Nel 1906 Chicago ospitò le sue uniche Cross-Town World Series, vinsero i White Sox... Tutti a Chicago aspettano Ottobre 2006, chissà perché.

Il baseball a New York: primi passi

New York City è la sola città che ha reso celebre il baseball oltre i confini americani, perché sembra nata per ospitare questo sport. Seguitemi in questo appassionante racconto delle squadre che hanno reso, e rendono tuttora, New York il suolo sacro del baseball americano. New York, dove tutto ebbe inizio... Nel 1846 chi si trovava ad Hoboken, nel New Jersey, assistette per la prima volta ad un match tra due circoli di baseball amatoriale newyorkesi, ufficialmente regolamentato e documentato nelle statistiche. Nel complesso le squadre ed i club di New York vivevano grazie alla passione dei giocatori e di qualche improvvisato dirigente. I club erano sparsi tra i vari quartieri della Grande Mela e ciascuno difendeva i colori del proprio vicinato, dando spesso vita a vivaci contese. Con il susseguirsi degli anni e la comparsa della lega professionistica, New York ancora non aveva una compagine di grosso rilievo da schierare o, per lo meno, nessun affarista aveva investito seriamente nel baseball giocato a Manhattan e dintorni. La svolta "agonistica" per il baseball newyorkese si ebbe il 7 dicembre 1882, quando John B. Day e Jim Mutrie portarono il baseball professionistico della National League nella Grande Mela costruendo una squadra sugli appena defunti Troy Haymakers (detti Trojans): nacquero i New York Gothams. Due anni più tardi l'American Association rispose alla National League iscrivendo al proprio campionato un club rappresentativo di Brooklyn. Il baseball a Brooklyn non era affatto sconosciuto. Già dal 1849 si giocava presso il Washington Park, diamante da gioco fortemente voluto da Charles Byrne e situato dove George Washington aveva combattuto la battaglia di Long Island con il suo esercito. Nel 1888, sotto la guida del manager William "Gunner" McGunnigle, alla squadra venne dato il soprannome di "Brooklyn Bridegrooms", poichè in quell'anno ben sette giocatori avevano preso moglie. Dal canto loro Day e Mutrie, che già possedevano una squadra a New York, i Metropolitans, decisero di investire di più sui Gothams ingaggiando giocatori di valore anche a costo di impoverire tecnicamente" i Metropolitans. La strada intrapresa sembrava quella giusta: i Gothams vinsero nel 1888 il loro primo "pennant" (ovvero il titolo di divisione) della National League. Mutrie, che era anche il manager della squadra, raggiante per la vittoria entrò nello spogliatoio ed esclamò "My big fellows! My Giants!". Così nacquero ufficialmente i Giants! Ed erano davvero giants, infatti bissarono il titolo nel 1889 e poi ancora nel 1894. Nel 1889 New York divenne capitale del baseball a tutti gli effetti, perché anche i Bridegrooms colsero il loro primo successo, vincendo il "pennant" dell'American Association. La competizione tra le due leghe minava seriamente la stabilità dell'American Association, perciò la squadra di Brooklyn decise di accasarsi presso la più quotata National League. La squadra ne risentì positivamente e nel 1890 vinse da debuttante il pennant. Negli anni successivi, fino alla chiusura del secolo, grazie al manager Ed Hanlon, che li condusse al pennant del 1899 e del 1900, i Brooklyn furono meglio conosciuti come "Superbas". Dopo il campionato del 1900 la "nuova" American League si riorganizzò sotto la guida del presidente Ban Johnson. Come ben sappiamo (vedi Great Expectations: la storia del baseball nel '900), la lega era nata dopo la scomparsa dalle scene dell'American Association. Tuttavia l'Amarican League poteva resistere allo strapotere della National League solo "combattendola" sul suo stesso territorio . Fu così che Ban Johnson spostò cinque delle sue squadre della Western League verso la East Coast, aggiungendone altre, tra cui una a Baltimore, nel Maryland. In realtà Johnson intendeva portare quella squadra a New York. Tuttavia, non aveva fatto i conti con l'ostruzionismo del proprietario dei New York Giants, Andrew Freeman, e della Tammany Hall di New York, a lungo legati da interessi politico-economici. Così nel 1901 a Baltimore nacquero gli Orioles. Andrew Freeman, a quei tempi considerato da tutti il più odioso proprietario di baseball, fece un altro sgambetto a Ban Johnson, nel 1902, soffiandogli il manager degli Orioles, John McGraw. Il passaggio di McGraw dall'American alla National fece scalpore, e per buoni motivi, visto che in tre decadi con i Giants McGraw vinse dieci "pennants" e tre World Series, consegnando alla storia giocatori di notevole spessore come "Iron Man" Joe McGinnity e Mel Ott. Nel gennaio del 1903, tra gli immancabili conflitti di American e National League, si affacciarono alla finestra del baseball due poco rassicuranti quanto abili affaristi di nome Frank Farrel e William Devery, i quali, con un abile mossa, riuscirono finalmente a portare gli Orioles da Baltimore a New York, ricorrendo ad intrighi politici. Farrel era infatti proprietario di un casinò e, per di più, Devery era stato a capo del dipartimento di polizia di New York, ma in seguito indagato e rimosso per corruzione. La mossa decisiva fu quella di ottenere, proprio a Manhattan (tra la 165th Street e Broadway), una zona dove edificare lo stadio. La zona era situata nel punto più alto dell'isola, e lo stadio venne, per questo motivo, battezzato Hilltop Park. Nel 1903 l'American League debuttò così anche a New York trasformando gli Orioles in Highlanders. La situazione non andava per niente bene a McGraw, il quale si trovava a fare i conti non solo con i Dodgers di Brooklyn, ma aveva un altro buon avversario (la sua ex squadra rediviva) proprio a Manhattan (il Polo Grounds, lo stadio dove giocavano i "giganti", si trovava originariamente all'angolo tra la 6th Avenue e la 110th Street e venne poi riedificato tra l'8th Avenue e la 155th Street). Nel 1904 il malcontento di McGraw rese i Giants protagonisti di un episodio increscioso: pur avendo guadagnato l'accesso alle World Series vincendo il pennant della National League, si rifiutarono di parteciparvi non ritenendo l'avversario dell'American League degno di confrontarsi con loro. Guarda caso, chi si contendeva nell'American League il posto per le World Series con i Boston Americans erano i New York Highlanders. In finale andò Boston, ma per ovvi motivi i Giants rinnovarono il rifiuto. Come presto leggerete, nel baseball le decisioni impopolari hanno sempre portato vere e proprie maledizioni. Fortunatamente per i Giants andò tutto liscio, o per lo meno quel che bastava per vincere le World Series già l'anno successivo. C'è invece chi dice che fu proprio questo episodio a scatenare le ire degli dei del baseball negli anni a venire...

La Golden Era

Dopo il secondo posto nell'American League del 1904, gli Highlanders fecero parlare di se più che altro per la loro discutibile dirigenza, accusata più volte (ma sostanzialmente mai giudicata colpevole) di taciti accordi nei risultati. Tuttavia la loro popolarità a New York era in netto aumento. Lo stadio, infatti, essendo alle porte del Bronx, reclutava molti fans di quelle zone. La gente iniziò a chiamare i giocatori della nuova squadra "Yankees". Non si sa da cosa derivi questo termine, tuttavia anche i giornali iniziarono ad etichettare la squadra di Hilltop Park come New York Yankees. I Giants, nella prima decade del '900, risentirono del famoso sgarbo del 1904: persero infatti tre World Series consecutive. Anche per i Brooklyn, dopo l'inizio di secolo promettente, i risultati stentarono ad arrivare: il problema principale per il proprietario, Charles Ebbets, era quello di riuscire a costruire uno stadio più capiente. La rivalità con i Giants di Manhattan portava grandi folle agli incontri e Washington Park era ormai divenuto obsoleto. A proposito di campi da gioco: nel 1913 gli Highlanders lasciarono Hilltop Park per trasferirsi al Polo Grounds dei Giants. Fu una sorta di favore ricambiato dal momento che i Giants avevano in precedenza usufruito di Hilltop Park quando, a seguito di un disastroso incendio, il primo Polo Grounds dovette essere ricostruito. I proprietari degli oramai New York Yankees, Farrel e Devery decisero di vendere la squadra nel 1915 a Jacob Ruppert per $460.000: l'avevano acquistata per 18.000$, un discreto affare! Nel 1916 i Brooklyn ritornarono parzialmente a gustare la vittoria. Sotto la guida di Wilbert Robinson, detto "Uncle Robbie", vinsero il National League pennant, ma persero le World Series. Negli anni a seguire, la decisione del governo americano di dichiarare guerra alla Germania penalizzò notevolmente la spettacolarità dei campionati. Molte squadre videro i propri campioni arruolarsi nell'esercito. New York negli anni '20 era sempre più la capitale del baseball. I Brooklyn, ora ufficialmente riconosciuti come Dodgers, vinsero il National League pennant del 1920, riuscendo però ancora una volta a perdere le World Series. I Giants, invece, furono campioni del mondo nel '21 e nel '22, a scapito degli Yankees rappresentanti dell'American League. Sulle ali dell'entusiasmo e guidati dalla sfrontatezza di McGraw, i Giants ordinarono agli Yankees di lasciare il Polo Grounds e di trasferirsi addirittura nel Queens. L'affronto fu notevole, tuttavia il nuovo proprietario degli Yankees, Jacob Ruppert, non si lasciò intimorire e restituì il torto con gli interessi, costruendo nel Bronx (quindi fuori Manhattan come voleva McGraw) lo stadio di baseball più famoso al mondo: lo "Yankee Stadium". Si trattava di un impianto sportivo mai visto prima, a tre piani, con più di 50.000 posti a sedere e strategicamente posizionato sulla stazione metropolitana IRT Jerome Avenue (oggi sullla linea 4 della MTA). La linea metropolitana facilitava (e facilita tutt'oggi) l'afflusso dei fans, ma il motivo di quella la scelta era in realtà ben diverso. Come due torri d'assedio, il Polo Grounds e lo Yankee Stadium si fronteggiavano divisi soltanto dall'Harlem River e chiunque da Manhattan poteva facilmente recarsi nel Bronx a vedere gli Yankees. Il 1923 fu l'anno di inaugurazione dello stadio: a suon di fuorcampi il nuovo fenomeno Babe Ruth portò gli Yankees alla vittoria nelle World Series proprio contro i Giants. E' ormai celebre la frase pronunciata da Ruppert dopo il titolo del '23: "Lo Yankee Stadium è stato un errore. Non mio, ma dei Giants!" Quell'anno spalancò definitivamente le porte alla dinastia dei New York Yankees. Incassato il colpo, i Giants rigiocarono le World Series nel '24 (quarto anno consecutivo) salvo, però, uscirne nuovamente sconfitti. Durante questo periodo i Brooklyn Dodgers stettero per lo più a guardare, praticando un baseball disattento e svogliato. Si avventò su di loro anche la malasorte. Nel '25 venne a mancare lo storico proprietario, Charles Ebbets, proprio durante una partita tra i Dodgers e Giants. Egli aveva dato la vita per il baseball di Brooklyn e si era battuto per dare la miglior organizzazione possibile alla squadra. Wilbert Robinson, dei Dodgers, disse: "Charles non avrebbe mai voluto che qualcuno si perdesse Giants - Dodgers solo perché era morto." Il giorno del funerale, freddo e ventoso, il nuovo presidente dei Dodgers, McKeever, si ammalò e morì di lì a una settimana. La grande depressione del '30 non portò nessun successo né tra fila dei Dodgers né tra i Giants. Anzi, a lasciare il segno, fu ancora una volta l'arroganza del nuovo manager dei Giants, Bill Terry, che in un intervista derise la stagione del '34 dei Dodgers dichiarando: "Brooklyn? Ma Brooklyn è ancora nella lega?" I Dodgers, per tutta risposta, spensero i sogni di pennant dei Giants sconfiggendoli nelle ultime due partite della stagione regolare e consegnando l'accesso alle World Series ai St. Louis Cardinals. A parziale consolazione per i poveri risultati, il 26 Agosto del '39 i Dodgers furono protagonisti assieme ai Cincinnati Reds della prima partita di Major League trasmessa in televisione. Nel frattempo gli Yankees stavano autenticamente dominando la scena sportiva, stravincendo le World Series del '27, del '28 e del '32. Ruth, Gehrig ed altri campioni lasciarono il palcoscenico ad un giovane di San Francisco dalle fulminanti doti in battuta: Joe DiMaggio. Nel Bronx, con DiMaggio, arrivarono ben quattro titoli consecutivi ('36,'37,'38,'39). Gli anni '40 si aprirono con una grossa sorpresa: nel 1941, per la prima volta, Brooklyn Dodgers e New York Yankees si fronteggiarono alle World Series. I Dodgers dovettero accontentarsi del National League pendant, poiché il baseball degli Yankees era inarrivabile. Due mesi dopo le World Series ci fu l'attacco di Pearl Harbor e gli Stati Uniti entrarono nel conflitto mondiale. Anche questa volta il baseball ne risentì, o meglio, il baseball tranne gli Yankees, che vinsero altre due World Series nel '42 e nel '43. Nel '46 il movimento americano per i diritti civili apprese con entusiasmo che il primo giocatore di colore era entrato ufficialmente nella Major League. Si trattava di Jackie Robinson e la squadra che lo mise sotto contratto fu proprio quella dei Dodgers. Le doti atletiche e l'intensità di Robinson gli valsero nel '47 il titolo di miglior "Rookie" (matricola) dell'anno. Anche grazie a Robinson, i Dodgers riuscirono a migliorare i risultati iniziando una serie di epici duelli con gli Yankees. Pur non incontrandosi mai durante i rispettivi campionati, le due compagini newyorkesi si contesero le World Series del '47 e del '49 e gli Yankees vinsero di nuovo entrambi i confronti. Mentre la gloriosa carriera di Joe DiMaggio volgeva al tramonto, la compagine del Bronx trovò le forze per aggiudicarsi anche le World Series del '50 e del '51. Il copione fu lo stesso nel '52 e nel '53: Dodgers e Yankees dominavano rispettivamente National e American League, ma alle World Series i "Bronx Bombers" sistematicamente lasciavano a Brooklyn solo le briciole. E così, dopo cique sconfitte su cinque per il titolo, tra i tifosi dei Dodgers serpeggiava l'esclamazione: "L'anno prossimo sarà quello buono!". Dei Giants, invece, non si ebbe più alcuna notizia fino al 1954, anno in cui, grazie al grande Willy Mays, conquistarono il titolo contro Cleveland. Fu l'ultimo segno tangibile della loro presenza a New York. Il 1955 divenne finalmente l'anno buono per i Dodgers, perché vinsero le World Series, ma, soprattutto, perché le vinsero contro gli Yankees! Poco male per il Bronx, che già nel '56 festeggiava l'ennesimo titolo, ancora a scapito dei Dodgers. Si arrivò così all'estate del 1957, l'anno in cui il baseball newyorkese cambiò radicalmente, ponendo fine a quella che fu da tutti considerata la "Golden Era".

Yankees Dynasty

Tutto ebbe inizio nei primi anni '50, quando l'impresario Walter O'Malley, presidente dei Dodgers, stava cercando una zona per la costruzione di un nuovo stadio. Il tanto amato Ebbets Field era, infatti, povero nelle infrastrutture e poco pratico per accogliere grandi folle. L'idea di O'Malley era, in ogni caso, quella di mantenere la casa dei Dodgers a Brooklyn. Di contraria opinione era l'amministrazione newyorkese, che cercò invano di convincere O'Malley a costruire a Flushing Meadows, nel Queens. A quel punto O'Malley cominciò a guardarsi attorno, e non era il solo. Horace Stoneham, presidente dei Giants, si trovava nella stessa situazione: il Polo Grounds da rifare, ma dove? A Manhattan non c'era più spazio, se non verso l'alto e a costi folli. Fu così che nel 1957, dopo quasi ottant'anni di glorie e battaglie, le due eterne nemiche lasciarono la loro casa per sempre. Ad accoglierle furono Los Angeles e San Francisco. La California strappò ai newyorkesi due delle loro tre squadre. Pur essendo gli Yankees a dominare il baseball, Dodgers e Giants erano comunque state le fondatrici della storia del baseball a New York. Per i cittadini della Grande Mela fu un duro colpo e gli Yankees rimasero l'unica squadra della città fino al 1962, anno in cui Joan Whitney Payson fondò per la National League i New York Mets, richiamando romanticamente su uniformi e cappellini i colori e le simbologie dei Giants e dei Dodgers. Lo Shea Stadium (dove tuttora giocano) si trovava proprio dove O'Malley rifiutò di costruire lo stadio per i Dodgers. Nel Bronx la "corsa all'ovest" delle due rivali non fermò gli Yankees, che vinsero le World Series anche nel '58. Nel 1960 furono sconfitti ma, con l'ennesima stagione dei record, furono campioni nel '61 e nel '62. Alle finali del '63 vennero severamente sconfitti dai nuovi Los Angeles Dodgers e a quelle del '64 cedettero solo all'ultima partita ai St. Louis Cardinals. Quest'ultima sconfitta mandò gli Yankees in una profonda crisi: la squadra di baseball più vincente della storia non si ripresentò più alle finali per dodici anni. Nel 1973 George Steinbrenner acquistò la squadra dalla CBS per 10 milioni di dollari. Il nuovo proprietario era seriamente intenzionato a ridare il gusto del successo ad una squadra capace, dal 1923, di vincere ben venti World Series! Nel '77 e nel '78 gli Yankees furono di nuovo campioni del mondo, ma le ultime vittorie furono ben presto dimenticate con la sconfitta alle finali dell'81. Steinbrenner non era ancora riuscito a ricostituire un gruppo solido che potessi ripetersi nel tempo come era successo con gli Yankees dal '36 al '64. A metà degli anni '90, sotto la guida di Joe Torre (attuale manager) rinacque, anche se difficilmente paragonabile a quelle passate, una dinastia vincente. Gli Atlanta Braves si inchinarono alle World Series del '96. Ad impedire ai ragazzi di Torre di infilare cinque successi di fila ci fu solo la sconfitta del '97 perché divennero campioni del mondo anche nel '98, nel '99 e nel 2000. Quest'ultima edizione delle finali fu soprannominata la "Subway Series", poiché si disputarono tra gli Yankees ed i Mets, 44 anni dopo l'ultima finale giocata tra due squadre newyorkesi. Nelle finali del 2001, con l'intera città, e probabilmente anche la squadra, ancora sotto shock per il crollo delle Twin Towers (le World Series si giocano in Ottobre) gli Yankees vennero sconfitti all'ultima partita dagli Arizona Diamondbacks. Sostanzialmente la dinastia degli anni '90 si estinse quel giorno. Persero infatti anche le World Series del 2003 contro i meno quotati (e meno pagati) Florida Marlins. Si conclude così il nostro lungo viaggio nel baseball di New York. Dagli epici fasti del secolo passato nel quale Manhattan, Bronx e Brooklyn si fronteggiavano a suon di fuoricampo, si è passati al dominio agonistico e territoriale degli Yankees, fino al loro recente torpore. Straripanti nelle vittorie, divennero la "Squadra di Baseball d'America", mettevano radici nei cuori di quei fans che non avevano la possibilità di vedere le Majors nella propria città e furono la sola squadra sportiva professionistica a portare, in una sola stagione, più di 4 milioni di spettatori alle partite. Mi gioco 10 dollari che perfino nel vostro paesino sperduto qualcuno (magari proprio voi) indossa un cappellino nero con una N e una Y bianche sulla fronte... Se ho vinto la scommessa è merito degli Yankees! E' ingiusto, però, dire che il baseball newyorkese deve tutto ai Bronx Bombers. Giants e Dodgers, infatti, con le loro schermaglie dentro e fuori il diamante, furono le prime squadre a dividere i cuori "pulsanti" della Grande Mela. Alcuni esperti americani ritengono che la vittoria alle World Series (dopo un estenuante stagione di circa 160 partite) sia frutto di molti fattori extrasportivi, non ultimo lo stimolo di competere contro un avversario della stessa città. La mancanza di avvincenti duelli contro Giants e Dodgers potrebbe avere, con il tempo, incrinato l'attitudine vincente degli Yankees. D'altro canto è stato proprio l'arrivo nelle Majors degli Yankees a far decollare il baseball di New York nei risultati. Anche se il ricordo delle altre due straordinarie compagini newyorkesi è ben conservato tra le spiagge di San Francisco e Los Angeles, potete star tranquilli che, tanto a Manhattan quanto a Brooklyn, qualcuno disposto a andare in California a vedersi Giants - Dodgers c'è... Chiedetelo in paradiso a Charles Ebbets!

Baseball Begins: la storia del baseball

Se per caso avete sentito da qualcuno, o avete letto da qualche parte, che negli Stati Uniti d'America le tradizioni vengono prima di tante altre cose e ancora fate fatica a crederci, beh... basta che vi accomodiate in poltrona e guardiate una partita di baseball. Già perché il baseball, in America, trascende la sua natura strettamente sportiva; definirlo solamente uno sport che crea ogni anno un giro di milioni di dollari impressionante è cosa quanto mai insensata o, per meglio dire, è una affermazione al novanta per cento incompleta. Bisogna riconoscere che nel baseball le "questioni di dollari" hanno giocato un ruolo decisivo fin dall'inizio, ma come sapete bene, in America, quando si cade... ci si rialza più forti di prima. Praticato fin dagli inizi dell'800, e forse anche prima, il baseball acquistò presto popolarità negli States. Lo si giocava a livello amatoriale nelle più grandi città americane del nordest, dove le squadre erano più che altro associazioni; in altre parole il baseball divenne un passatempo, anzi, il passatempo preferito. La storia del baseball come vero e proprio sport ebbe inizio a New York, nel lontano 1845. Alexander Joy Cartwright, che gestiva i New York Knickerbocker Baseball Club, mise nero su bianco una lista di regole per formalizzare in modo definitivo il gioco (ed il campo di gioco) del baseball, che nacque allora ufficialmente così come lo conosciamo noi. Il 1846 fu l'anno della prima partita di baseball regolamentata. Si tenne presso gli Elysian Fields a Hoboken, New Jersey, e vide protagonisti i Knickerbocker di Cartwright contro il New York Baseball Club. Anche se Cartwright aveva il merito di aver inventato le regole, la vittoria andò al New York Baseball Club. Il gioco rimase sostanzialmente a carattere amatoriale, tuttavia pian piano aumentarono le partite e la partecipazione. Nel 1857 una commissione composta da venticinque membri, rappresentanti di altrettante squadre del nordest, discussero sull'opportunità di regolamentare il gioco su larga scala e così nel '58 nacque la National Association of Baseball Players, la prima Lega della storia del baseball. Nel suo primo anno di esistenza riuscì addirittura a coprire le proprie spese grazie anche all'aiuto dei pionieri degli attuali "fans", persone che, occasionalmente, erano disposte a sostenere economicamente la squadra pur di vedere le partite. Il futuro sembrava essere, anche per quest'ultimo motivo, più che mai roseo. La prima grande prova di sopravvivenza che il baseball dovette sostenere fu niente meno che la Guerra Civile. Nei primi anni sessanta la continuità del gioco subì dei duri colpi a causa della diminuzione dei club ma, difficile a credersi, fu proprio grazie alla terribile guerra che il baseball decollò in tutti gli States. Già, perché, provate un po' ad immaginare qual'era il passatempo preferito dagli "Union Soldiers" barricati nei forti? Guantone, mazza, pallina... e tabacco da mettere sotto i denti era quanto bastava per divertirsi. E così, grazie ai soldati, il baseball fu esportato dal nordest alle altri parti del paese. Il risultato fu che nel 1868, al convegno annuale della National Association of Baseball Players, si presentarono i delegati di più di cento squadre. Con la corposa crescita della Lega, crebbero per le squadre anche i costi e divenne necessario chiedere l'apporto dei fans e di qualche sponsor per coprire le spese di viaggio. Vincere divenne molto importante, allo scopo di convincere gli sponsor. I club che finanziariamente potevano permetterselo, iniziarono a pagare di nascosto i giocatori migliori. Ad alcuni venne addirittura promesso dallo sponsor un posto di lavoro... erano proprio altri tempi! Il 1869 fu l'anno che consacrò definitivamente il baseball al professionismo. Harry e George Wright, proprietari dei Red Stockings di Cincinnati, ingaggiarono e stipendiarono i migliori giocatori del paese, "ammazzando" letteralmente il campionato con un record di 65 partite vinte e 1 persa. Altre due squadre di professionisti nacquero di lì a poco: i Boston Red Stockings e i Chicago White Stockings. Chi tra i proprietari intendeva ancora mantenere il baseball un gioco amatoriale, presto si accorse che vincere contro i professionisti era una follia. E fu così che nel 1871 la National Association divenne interamente professionistica. Nel '75 i teams che partecipavano alla National Association erano tredici. Il professionismo portò con sé pregi e difetti. Il tasso tecnico delle partite aumentò, ma aumentò anche il giro di scommesse sui risultati. Gli scommettitori senza scrupoli riuscirono a fare quello che neanche la Guerra Civile aveva fatto: allontanare le folle, ormai diffidenti sulla regolarità delle partite, dai diamanti di gioco. Fallì così la National Association, ma sempre nel '75 nacque la National League
L'organizzazione era radicalmente cambiata: se precedentemente a possedere le squadre erano persone che spesso scendevano anche in campo con la squadra, ora c'erano dei veri e propri uomini d'affari che stabilivano gli standard per i biglietti delle partite e per i contratti salariali dei giocatori. In un paio d'anni la lega di baseball più famosa d'America vide ampliarsi i propri confini. Da St. Louis arrivarono i Brown Stockings, da Pittsburgh gli Alleghenies, da Philadelphia i Phillies e da New York i Gothams (zona Manhattan) assieme ai Bridegrooms di Brooklyn. Ciò dimostrò che il professionismo era possibile, ma la sfida per il baseball ancora una volta era dietro l'angolo: l'America è il paese delle opportunità, del libero mercato, della concorrenza... Nel 1882 si stagliò all'orizzonte l'American Association, che competeva con la National League proponendo prezzi molto bassi per i biglietti e annoverava anch'essa squadre in grandi città come la National. Le due leghe decisero, però, di non entrare in conflitto, ratificando un National Agreement: una sorta di pacifica convivenza. Vi era però una voce nel National Agreement che mandò su tutte le furie i giocatori: la Reserve Clause, che sottraeva totalmente dalle mani dei giocatori il potere contrattuale per darlo interamente ai proprietari. Appariva infatti evidente ai proprietari delle squadre che la concorrenza tra National League e American Association avrebbe portato ad uno rialzo incontrollato dei contratti, e questo poteva essere evitato solo tagliando fuori dalle contrattazioni i giocatori. Questi ultimi, ovviamente, scesero sul piede di guerra, formando nel 1884 la Union Association. Le squadre iniziarono a spopolarsi verso la nuova Union Association, ma la lega, nata senza un preciso progetto, fallì dopo un solo anno. Nel '90 i giocatori ci riprovarono formando la Players League, ma nemmeno questa lega riuscì a sopravvivere. Erano tempi difficili per il baseball: proprietari e giocatori erano divisi da un abisso e, quel che è peggio, la gente era indignata perchè i valori associativi e di puro spirito sportivo dei primi tempi venivano bistrattati da mere questioni economiche. A farne le spese fu l'American Association, che vide passare quattro delle sue migliori squadre alla National League e chiuse i battenti di lì a breve. Si spense così, tra dubbi e incertezze, il primo secolo di storia del baseball. I decenni del'800 hanno portato un semplice passatempo a divenire sport nazionale; saprà il secolo successivo riscoprire i valori che ne hanno permesso la prosperità? E, soprattutto, otterrà il baseball la stabilità necessaria per continuare a scaldare i cuori di quei fans che cinquant'anni prima ne sostenevano addirittura le spese? Vedremo...

Great Expectations: la storia del baseball

Il nuovo secolo si presentò subito ricco di sorprese. Nel 1901 dalle ceneri della American Association nacque l'American League. Come accadde con l'American Association l'attrattiva per la nuova lega era forte nei giocatori ed ancora una volta National e American si garantirono la convivenza con un accordo. Il mondo del baseball americano sembrava aver finalmente ritrovato una sua stabilità; nacque così la Major League Baseball. Per la National League giocavano Cincinnati Reds, Boston Beaneaters, Chicago Cubs, Brooklyn Superbas, Philadelphia Phillies, Pittsburgh Pirates, St. Louis Cardinals e New York Giants, mentre per l'American League giocavano Milwaukee Brewers, Boston Americans, Chicago White Sox, Cleveland Blues, Detroit Tigers, Washington Senators, Baltimore Orioles, Philadelphia Athletics. National ed American League competevano solo sul piano sportivo: le due squadre che vincevano la stagione nelle rispettive leghe si sfidavano alle World Series per decretare la squadra campione del mondo. In quegli anni fu apportato un cambiamento radicale nella dinamica del gioco. Considerato da sempre un intelligente connubio di atleticità e strategia, il baseball di quei tempi era forse un po' troppo decentrato verso la seconda. In particolar modo erano pochi i cosiddetti "homeruns", cioè quelle battute che spediscono la pallina fuori lo stadio mandando il pubblico in delirio, e che permettono in un sol colpo al battitore di correre liberamente sulle basi e "tornare a casa" a segnare il punto. La soluzione fu inserire, nel 1911, all'interno delle palline un nucleo di sughero, grazie al quale caddero in breve tempo record nelle battute che perduravano da quarant'anni. La pallina modificata creò una spettacolarità nel gioco mai vista prima e la popolarità del baseball esplose definitivamente. L'altalena delle leghe concorrenti, segno che il baseball era più che mai vivo, ricominciò nel 1914. Si fece avanti questa volta la Federal League, che intendeva inserirsi in pianta stabile sia nei campi di gioco che nelle corti di giustizia. Accusava, infatti, National e American League di monopolio, ma la Corte Suprema bocciò la causa intentata dalla Federal League, che così si estinse dopo due anni dalla sua nascita. I ruggenti anni venti furono di un'importanza colossale per il baseball. In questo periodo ebbero inizio le famose "curses" che colpirono i Chicago White Sox, protagonisti del più grosso scandalo sportivo nella storia dello sport americano, ed i Boston Red Sox... Ma di queste maledizioni ne leggerete la storia molto presto. Gli anni venti, piuttosto, regalarono all'America la più amata delle leggende sportive: la leggenda di George "Babe" Ruth. Babe Ruth si affermò come lanciatore nei Boston Red Sox, ma i New York Yankees lo misero sotto contratto cambiandogli radicalmente ruolo e rendendolo il più tremendo battitore che la storia del baseball abbia avuto. Fuoricampista impressionante, Ruth rivoluzionò il gioco e lo accompagnò verso un era di prosperità economica. Era già allora uno tra gli uomini più famosi nella storia d'America. Ma anche di questo eroe americano vi parlerò in modo più approfondito più avanti. Intanto un'altra guerra si frappose tra il baseball e i suoi fans; la seconda guerra mondiale chiamò a servire la patria molti giocatori rendendo i due campionati meno spettacolari. Tuttavia anche in questi difficili anni '40 il baseball giocò un ruolo decisivo nella storia americana. Stavolta ad emergere furono le questioni razziali. Seppur non vi fosse alcuna regola scritta che vietasse ai giocatori di colore di prendere parte alle partite, nessuna squadra in Major League annoverava tra le proprie fila afro-americani. Nessuno fino al 1947, anno in cui i Dodgers di Brooklyn (che oggi sono i Los Angeles Dodgers) ingaggiarono Jackie Robinson. Il processo di integrazione ebbe inizio ed entro la fine degli anni '50 il baseball americano aveva sfatato anche un altro tabù. Gli anni '60 rispolverarono vecchi duelli di concorrenza. La Continental League diede battaglia alla Major League soprattutto in tribunale, poiché capiva di non aver chance di proporre agli americani un baseball migliore di National e American League, caratterizzate ormai da un secolo di gioco ai massimi livelli. Dai proprietari di National e American League la mazzata verso la Continental non si fece attendere: espansero il numero di squadre da sedici a ventiquattro. Vi era infatti un forte desiderio da parte delle grandi città del sud e dell'ovest di avere delle squadre proprie. Tutto risolto? Niente affatto. Certo, la Continental era sparita, il baseball prosperava economicamente grazie ad astronomici contratti con radio e tv, ma i salari dei giocatori stagnavano e la Reserve Clause legava ancora loro le mani. Drammaticamente tornarono di stretta attualità i problemi del 1884. La Major League Baseball Player Association, pur esistendo ormai da una trentina d'anni, non aveva alcuna carta da giocare sulle discussioni dei contratti; si occupava piuttosto di amministrare le misere pensioni che ricevevano i giocatori dopo il ritiro dai campi di gioco. Tuttavia nel 1965 arrivò la svolta: venne chiamato a difendere la causa dei giocatori Marvin Miller, il quale si era adoperato per anni nel difendere il sindacato dei lavoratori dell'acciaio, lo United Steelworkers. Miller esaminò attentamente la situazione e capì subito che i giocatori erano decisamente sottopagati. La posta in gioco era alta. Decise di puntare sulla proposta di convogliare i diritti di trasmissione delle partite nei fondi pensione dei giocatori, ottenendo così in un solo anno un minimo salariale di 6.000 dollari, mille più dell'anno precedente. Ottenne anche altri miglioramenti, ma quel che più interessava ai giocatori era che avevavo acquisito una maggiore "leva contrattuale": dopo quasi cento anni di rapporto "take it or leave it" con i proprietari tornavano ad essere protagonisti delle loro carriere anche fuori dal diamante. Ciò diede tremendamente fastidio ai proprietari, i quali, pur avendo ancora dalla loro la Reserve Clause, non volevano che un sindacato ficcasse il naso nei loro affari. Con i salari leggermente aumentati i giocatori se ne stettero tranquilli per un po', ma negli anni '70 scattarono altre grane contrattuali. Protagonisti delle vicende furono uno dei migliori giocatori della lega, Curt Flood dei St. Louis Cardinals, e due lanciatori, Dave McNally e Andy Messersmith. Essi rifiutarono di rinnovare il contratto senza un aumento e disertarono i "training camp" prestagionali. La Corte Suprema respinse la loro causa contro la Reserve Clause, ma un arbitrato andò loro in aiuto creando sostanzialmente l'odierna "Free Agency": i giocatori che non intendevano rinnovare il contratto rimanevano di proprietà dei rispettivi team per un paio d'anni ma poi, espiata questa sorta di purgatorio, erano liberi di firmare con chi volevano. La strada sembrava essere in discesa: i salari crebbero e i proprietari si liberarono di giocatori scomodi. Tuttavia si trattava di una calma apparente, perchè nel bel mezzo della stagione 1981 i giocatori disertarono i campi. Nell'82 accadde la stessa cosa, ma dopo cinquanta giorni di ritardo la stagione partì. Questa volta un arbitrato decise un equo salario anche per quei giocatori non destinati a divenire "free agent". Ma nell'86, misteriosamente, il mercato dei free agent non si mosse. Nessuno propose contratti ai giocatori "liberi", che pur di guadagnare qualcosa, rifirmarono a cifre irrisorie con le squadre che li avevano scaricati. E si arrivò così all'anno nero del baseball... Va detto che fino ad allora, pur tra noie legali, il campionato si era sempre giocato. Nell'agosto del 1994 i giocatori entrarono in sciopero, e per la prima volta in 92 anni le World Series vennero annullate. La botta per la popolarità dello sport fu tremenda. Fu costretto a scendere in campo a mediare tra le due parti addirittura il Presidente Clinton. Entro il 1996 l'accordo fu raggiunto e la continuità era assicurata. Questa è la storia della nascita del baseball in America. Il baseball, da lontano passatempo con gli amici, è divenuto in duecento anni prima sport a tutti gli effetti, ma anche un vero e proprio "business". La sua origine amatoriale ne ha purtroppo reso difficile il decollo verso il professionismo. Abbiamo letto quali e quante peripezie abbia dovuto passare per arrivare fino a noi. Tuttavia se fin qui è arrivato è proprio perché della sua origine amatoriale ha conservato la semplicità e la naturalezza. In quasi duecento anni le uniformi di gioco, il celebre berrettino, le usanze dei giocatori sono rimaste pressoché immutate. Gli stadi del baseball sono luoghi straordinari dove trovate famiglie intere che passano un paio d'ore in totale spensieratezza; si cantano motivetti popolari risalenti ai tempi dell'indipendenza, famosissimi brani patriottici come "God Bless America" o "America The Beautiful"... altro che i nostri innominabili cori calcistici! E' uno sport che ha valicato con successo i confini dell'America, ma, cosa che non accade in altri paesi, esso in America è prima di tutto una passione. Quindi non stupitevi se frugando nello zaino di un americano al parco trovate un guantone e una pallina!

 

 

"Premere su Babe" per ascoltare dal vivo la voce dello speaker che commenta alla radio il "called shot" e quella del "Bambino" dopo l'homer del 1932

Siamo alle World Series del 1932, gli Yankees al Wrigley Fields contro i Cubs per gara 3, e Ruth nel box con il punteggio sul 4 pari alla ripresa numero 5. I tifosi di casa, tradizionalmente i più caldi delle Majors, riservano al più grande di tutti i tempi i peggiori epiteti, mentre Charlie Root entra con il primo strike, lasciato passare dal re dei fuoricampo; The Babe, guardando il dug-out avversario mostra il dito indice, provocando un ulteriore infervoramento della folla. I due lanci successivi sono ball, poi Charlie Root ritrova l’area e The Babe anticipa l’arbitro chiamando egli stesso lo strike numero due, mostrando poi l’indice e il medio verso la panchina dei Cubs… Poi storia e leggenda si fondono e si confondono. Gabby Hartnet, ricevitore per Chicago, riporta le seguenti parole, pronunciate da Ruth nel fatidico momento: “Ne basta una per batterne una”; poi il Bambino punta il dito (verso le recinzioni? verso il lanciatore? verso il dug-out?) e Gehrig, dal deck, lo sente esclamare: “la prossima palla che lanci te la ficco giù per la gola!”. Parte il lancio e Ruth spedisce la palla oltre le recinzioni (secondo alcuni nel punto precedentemente indicato); durante il giro delle basi The Babe esulta sghignazzando e scuotendo le mani unite sopra la testa, più o meno nello stile che sarebbe stato in seguito adottato da Snoopy e, mentre gira verso casa, riserva al dug-out avversario il gesto che noi chiamiamo “marameo”. L’episodio, entrato negli annali del baseball come “The Called Shot”, non rappresenta l’unico caso in cui Ruth abbia dichiarato un fuoricampo e mantenuto la propria promessa.
In situazione meno drammatica, nel 1928, si trovò nel box durante un interminabile incontro, che stava proseguendo ben oltre il nono, quando si accorse del padre di Ford Frick (futuro commisioner) che mostrava evidenti segni di stanchezza. Indicando un treno che transitava oltre le recinzioni assicurò allo stanco spettatore: “Porrò fine a questa cosa per te, Pappy”; dopodiché inanellò uno dei suoi 714 homers. In un altro incontro ne spedì una sopra il palo di foul, ma mentre si accingeva a compiere il giro d’onore, si sentì richiamare dall’arbitro di casa, che poi gli spiegò che la palla era finita in foul per due centimetri; insolitamente di buon umore nei confronti di un “uomo in blu”, Ruth dichiarò che la successiva battuta sarebbe rimasta dentro per due centimetri e spedì in effetti il lancio circa nello stesso punto di prima. Prima di iniziare il giro delle basi volse lo sguardo al signor Evans, che gli disse “è rimasta dentro per due centimetri. Puoi andare Babe”. Il Bambino non è l’unico giocatore in grado di simili prodezze. Nell’autobiografia My Turn At Bat, Ted Williams afferma di aver battuto un homer precedentemente promesso ad un bambino ricoverato in un ospedale, senza peraltro ricordare le circostanze dell’avvenimento.
Ma senza scomodare membri della Hall Of Fame, anche Jimmy Piersall in un’occasione confidò al bat boy accanto a lui che ne avrebbe spedita una oltre la recinzione e mantenne fede alle proprie parole. Germany Schaefer era un altro che si faceva riconoscere come clown più che come maestro della battuta, ma fu autore di un singolare “Called Shot” nel 1906 a Chicago contro i Sox. I suoi Tigers erano sotto due a uno al nono attacco, con un corridore in prima, quando Germany fu scelto dal suo manager quale pinch-hitter. Nei primi anni del '900 non erano ancora utilizzati gli altoparlanti negli stadi, ed era compito degli arbitri (nel caso si trattava dello stesso Evans menzionato prima) segnalare alla folla l’avvenuta sostituzione. Schaefer, evidentemente poco soddisfatto dell’introduzione di Evans, si inchinò maestosamente ai tifosi della sua città natale e proclamò a gran voce: “Signore e signori, permettetemi di presentarmi. Sono Germany Schaefer, il migliore battitore del mondo che vi darà ora dimostrazione delle proprie abilità offensive”. Gli spettatori, forti del fatto che Schaefer batteva un anemico .238 senza aver colpito un solo fuoricampo, scoppiarono in un frastuono di ululati, fischi ed insulti, ma furono zittiti sul primo lancio che Germany mandò oltre le barriere di sinistra. In prima giunse scivolando in avanti, si spolverò e annunciò “Schaefer conduce ad un quarto di gara”; in seconda si fermò per dire “a metà Schaefer è avanti di una lunghezza”; in terza proclamò “Schaefer conduce ora di un miglio”, a casa scivolò di nuovo, si scrollò la polvere, levò il cappello alla folla e sentenziò:
“con questo, signore e signori, si conclude la mia prestazione per questo pomeriggio”. Un altro personaggio decisamente fuori dagli schemi era Dizzy Dean, talentuoso lanciatore dei Cardinals negli anni ’30; ovviamente Dean non annunciò mai un proprio fuoricampo, ma riuscì in più occasioni a mantenere fede a dichiarazioni sulle proprie prestazioni. Nel 1935, facendo visita ad un ospedale pediatrico, promise ai bambini di mettere al piatto Bill Terry, giocatore e manager dei Giants, con le basi piene.
Il giorno dopo, con un vantaggio risicato e la partita negli inning finali, Dizzy si trovò ad affrontare Hughie Critz con prima e seconda occupata e due eliminati; senza curarsi delle statistiche (Critz viaggiava a .187), Dean lo passò in base per poter affrontare Terry e rendere felici i suoi piccoli tifosi mandandolo strikeout.
Nel ’36 si presentò nel dugout avversario e si rivolse al manager dei Braves affermando che i ricevitori si prendevano toppi meriti e che, per la partita che stava per svolgersi avrebbe lanciato solo fastballs, per dimostrare l’inutilità dei segnali: i Braves chiusero l’incontro a zero, con la miseria di 4 valide. Infine, un anno dopo, ancora contro Boston, scommise con un compagno che avrebbe messo strikeout Vince DiMaggio ogni qualvolta si fosse presentato nel box.
Il fratello dell’immortale Joe, dopo aver collezionato tre “K” nei primi tre turni alzò, nella sua ultima apparizione della giornata, un pop dietro casa base. Alle grida “Lasciala cadere o sono rovinato!” del proprio estroso lanciatore, il catcher Ogrodowski obbedì e, con una fastball al calor bianco, Dean mise a sedere DiMaggio sul lancio successivo. Satchel Paige poteva permettersi simili prestazioni sul mound. Durante un’esibizione proprio contro Dean, l’incontro stava proseguendo oltre il nono ed il tabellone continuava a popolarsi di zero, quando Satch disse all’avversario: “Non so che intenzioni abbia lei Mr. Dean, ma io non concederò alcun punto, dovessimo stare qui tutta la notte!”; i due rifiutarono di essere rilevati per 16 inning e Paige uscì vincitore per uno a zero.
Ad un lead-off giunto in base, un’altra volta disse.”Lì sei e lì resterai”. E procedette ad eliminare i successivi tre battitori in nove lanci; in più occasioni Paige invitava i suoi esterni a sedersi accanto al monte, e giunse persino a riempire intenzionalmente le basi per affrontare e mandare al piatto Josh Gibson, il “Babe Ruth nero”.
Fu anche vittima di un “particolare” Called Shot, quando Piersall dichiarò ed eseguì su di lui una smorzata, giungendo salvo in prima, nonostante l’abilità difensiva di Satchel. Se vi è parso un po’ forzato parlare di colpo chiamato in quest’ultimo caso, concludiamo narrando la prima volta di Ruth. Correva l’anno 1917 e The Babe calcava la pedana dei Red Sox, quando il 23 giugno si vide chiamare ball i primi 4 lanci dell’incontro; Ruth si precipitò verso il piatto e aprì un rapido scambio di battute con l’arbitro Brick Owen.
- Perché non apri i tuoi dannati occhi?
- Torna sul monte o ti caccio dalla partita!
- Prova a cacciarmi e ti do un pugno sul naso!
- Sei fuori!
Il primo "Called Shot" di Babe Ruth mandò al tappeto l’arbitro, e costò al Bambino 10 giornate di squalifica e l’uscita dal campo scortato da un poliziotto.

 

 

La Storia
"Rally Cap": superstizione del baseball

La prima apparizione del "Rally Cap" fu durante la regular season della Major League nel 1942, quando i fans dei Detroit Tigers, presenti al Tiger Stadium, rovesciarono sotto sopra i capellini come dei talismani improvvisati per generare la rimonta e la vittoria negli ultimi innings di un partita. La superstizione si diffuse tra i fans tanto che contaggiò anche i giocatori di Detroit durante le World Series del 1945 contro i Chicago Cubs. Questo successe in gara 5 con le due squadre che avevano vinto ciascuna due partite. Nel sesto inning di quella gara, il presentatore radiofonico fece presente che i giocatori dei Tigers nel dugout avevano capovolto i loro capellini. Come per magia, in quell’inning, Detroit (sull’uno a uno) segnò 4 punti favoriti da una rimbalzante passata in mezzo alle gambe del prima base dei Cubs, Phil Cavarretta. I Tigers vinsero per 8 a 4. Questa scaramanzia "condusse" i Tigers alla vittoria in gara 7 e al titolo delle World Series del 1945.

Il "Rally Cap", successivamente, fu adottato internazionalmente dai fans di baseball come gesto scaramantico per aiutare la propria squadra nei momenti topici.

Questo gesto scaramantico fu rivisto nel 1986 quando i New York Mets vinsero le World Series sui Boston Red Sox.

 

 


Stefano Quaino

Le Negro Leagues erano quelle organizzazioni in cui furono segregati i migliori giocatori di colore: pur mancando della pubblicità della National League o della American League, le Negro Leagues offrirono degli spettacoli di tecnica e di classe forse addirittura superiori. Numerosi campioni si misero in mostra, primi su tutti Josh Gibson e Satchel Paige, e le varie squadre, come ad esempio i Kansas City Monarchs e gli Homestead Grays, non avevano niente da invidiare ai vari Yankees, Giants e Cardinals. Prima dell’avvento di Jackie Robinson, che segnerà l’inizio della fine per le Negro Leagues, anche nel baseball ci fu la segregazione razziale, che separò bianchi e neri in tutta la società americana. Squadre formate da soli giocatori di colore erano già presenti sul territorio nazionale fin dagli anni ’60 del XIX secolo; in uno dei primi resoconti ufficiali compare una sfida del 1867, The Championship of colored clubs, tra i Brooklyn Uniques e i Philadelphia Excelsiors, vinta dai secondi per 37-24. Qualche mese più tardi, un’altra formazione di Philadelphia, i Pythians, chiese di poter entrare nella National Association (la lega amatoriale), ma i dirigenti di questa organizzazione presentarono un documento ufficiale in cui si affermava: "If colored clubs were admitted there would be in all probability some division of feeling, whereas, by excluding them, no injury could result to anyone". Tuttavia questo fatto non bloccò i giocatori afro-americani e ben presto si affermarono le prime compagini estremamente attive e ben organizzate: nel 1869 i Pythians affrontarono i City Items (squadra sempre di Philadelphia) nel primo incontro multirazziale, vincendo 27-17.

Toledo, Ohio, American Association con Moses Fleetwood Walker (al centro della prima fila in piedi) nel 1884

Quando nel 1876 nacque la National League, il disprezzo verso i neri aumentò considerevolmente: nel 1884 avvenne il famoso episodio di razzismo in cui furono coinvolti Cap Anson e Moses Walker, che portò al graduale divieto per i Neri di continuare a giocare nella National League e nella American Association.

Moses Fleetwood Walker

Moses Walker era un ottimo ricevitore, ma il colore della pelle gli creò innumerevoli antipatie anche tra i compagni di squadra; un lanciatore con cui lavorava affermò:"He was the best catcher I ever worked with, but I disliked a Negro and whenever I had to pitch to him I used to pitch anything I wanted without looking at his signals" (Era il migliore ricevitore di sempre con cui ho lavorato, ma non mi piacevano i negri e ogni volta gli lanciavo quello che volevo senza guardare i suoi segnali). Gli afro-americani erano dei giocatori eccezionali eppure erano tratti in maniera pessima dai loro avversari e dai tifosi: erano colpiti volontariamente dai pitcher, dovevano subire pesanti scivolate da parte dei corridori ed erano bersaglio di beceri cori degli spettatori; sui principali giornali d’epoca venivano pubblicati articoli in cui ci si chiedeva "How far will this mania for engaging colored players go?" (Per quanto tempo durerà questa mania di coinvolgere giocatori di colore?). Questi tristi eventi non rimasero isolati, tanto che tra il 1887 e il 1888 a tutti gli atleti afro-americani fu preclusa ogni possibilità di giocare nelle prime cinque minor leagues della nazione. L’integrazione razziale era prevista soltanto nelle organizzazioni più semplici, ma sul finire del secolo anche queste opportunità finirono, trasformando il baseball professionistico un “affare” per bianchi. Ad ogni modo, i giocatori di colore erano determinati a praticare la disciplina che amavano e decisero di formare le proprie squadre e federazioni; vennero così organizzati dei tour che permettevano la disputa di numerosi incontri in tutta la nazione. Nel 1885 Frank P. Thompson fondò la prima squadra di colore professionistica, i New York Cuban Giants, una formazione così forte che nel 1888 riuscì a sconfiggere i New York Giants (vincitori delle World Series) per quattro partite ad una.

I New York Cuban Giants del 1886 -1900

Su un giornale, The Indianapolis Freeman, comparve un articolo in cui si affermava che "The Cuban Giants, the famous baseball club, have defeated the New Yorks, four games out of five, and are now virtually champions of the world. The St. Louis Browns, Detroits and Chicagos, afflicted with Negro phobia and unable to bear the odium of being beaten by colored men, refused to accept their challenge" (I Cuban Giants, il famoso club di baseball, ha sconfitto i New Yorks, quattro partite su cinque, e ora sono virtualmente campioni del mondo. I St. Louis Browns, Detroits e Chicagos, affetti dalla fobia dei Negri e incapaci di sopportare l'odio di essere stato sconfiti da uomini di colore, hanno rifiutato di accettare la loro sfida).
Tra i principali atleti di colore dell’epoca ricordiamo:

Bud Fowler, lanciatore e seconda base


Frank Grant, seconda base e considerato il miglior giocatore nero del XIX secolo.

Nei primi anni del nuovo secolo, nacquero diverse compagini tra cui si ricordano i Norfolk (Virginia) Red Stockings, i New York Cuban X Giants, i Philadelphia Giants e i Brooklyn Royal Giants.

I Norfolk Red Stockings 1904

I New York Cuban X Giants 1904

I Philadelphia Giants 1904

I Brooklyn Royal Giants 1919

Nel 1908 nel nord-est americano erano presenti una dozzina di squadre di neri e cubani, ben organizzate e stabili. Il talento dei giocatori era ben noto a tutti, in particolare a John McGraw dei New York Giants della National League, che invano cercò di ingaggiare due fuoriclasse come José Mendez e Rube Foster: a causa di un Gentlements’ Agreement le Majors restarono un’utopia per i giocatori di colore, i quali ben presto si rassegnarono alla segregazione. Tra le città più importanti del black baseball possiamo ricordare New York, ma soprattutto Chicago, in cui il razzismo era molto forte: tuttavia, nella Windy City esisteva la Chicago League, organizzazione cui erano iscritte squadre formate da neri, ma anche compagini bianche, in cui erano presenti alcuni atleti dei White Sox e dei Cubs. Nel 1908 si verificarono le prime sfide multirazziali tra Chicago Cubs contro Chicago American Giants e tra Philadelphia Athletics contro Cuban X Giants: i Cubs sconfissero tre volte gli American Giants, ma quei successi furono estremamente faticosi; gli Athletics riuscirono a battere i Cuban X Giants cinque volte su sette. Al termine della stagione 1908, i Cincinnati Reds si recarono a Cuba per sfidare formazioni locali, che per l’occasione accolsero diversi giocatori statunitensi di colore: nonostante i resoconti non ben curati, è risaputo che i Reds rimediarono delle sonore batoste, soprattutto da José Mendez, che non concesse punti in 25 inning di gioco. In seguito anche i Tigers raggiunsero i Caraibi: il mitico Ty Cobb, grandissimo ladro di basi, fu colto rubando per ben quattro volte consecutive; complessivamente Detroit perse otto volte su dodici incontri. In tutta la prima metà del secolo si disputarono oltre 500 partite multirazziali e il bilancio finale (anche se ufficioso) premia nettamente i Neri. I principali atleti dei primi vent’anni del secolo furono:

John Henry Pop Lloyd, ottimo shortstop e pericolosissimo battitore, noto come The Black Honus Wagner

Rube Foster, lanciatore che sconfisse Rube Waddell

Jose Mendez, pitcher cubano, noto come The Black Matty

Smokey Joe Williams, lanciatore fenomenale che sconfisse molte volte avversari delle Majors. Nel 1925, ormai quarantenne, firmò per gli Homestead Grays, dove giocò ai massimi livelli per oltre sette anni


Oscar Charleston, uno dei migliori esterni del tempo; non solo era velocissimo, ma era anche dotato di un potente e preciso braccio. In battuta era temuto sia per la potenza, sia per le altissime medie che sapeva ottenere

Nonostante queste emozionanti sfide, la segregazione non terminò: nel 1920, Rube Foster, proprietario e manager dei Chicago American Giants, propose un piano di integrazione razziale, ma il commissioner K. M. Landis lo respinse.

I Chicago American Giants 1920

Dopo questo episodio, Foster e i maggiori proprietari di colore si riunirono a Kansas City e formarono la Negro National League. Il motto della lega era We are the Ship, All Else is the Sea (Siamo la nave, tutto il resto è il mare). La Negro National League riscosse un buon successo, soprattutto a Chicago, tuttavia il black baseball spiccò il volo quando a New York fu fondata la Eastern Colored League. Queste due leghe (in particolare la seconda) dimostrarono la volontà da parte degli afro-americani di giocare a baseball e di formare un universo parallelo alla American League e alla National League. Purtroppo le due negro leagues mancavano di stabilità, infatti, i giocatori cambiavano continuamente squadre e le franchigie più ricche dominavano sulle altre; questi fatti si riscontrarono soprattutto nella NNL. Nel 1924 le due leghe istituirono le Colored World Series, che avrebbero messo di fronte le squadre vincenti dei rispettivi titoli; l’edizione inaugurale vide il trionfo dei Kansas City Monarchs, che sconfissero i Philadelphia Hilldales per 5-4 (con 1 pareggio).

I Kansas City Monarchs del 1924. Sotto la foto dei Monarchs con i Philadelphia Hilldales nelle Colored World Series del 1924

(Clicca qui per vedere le due foto ingrandite)

Nonostante le premesse, le Colored World Series non riscossero grande successo tra gli appassionati, che spesso lasciavano gli stadi vuoti. I motivi di tutto ciò sono abbastanza comprensibili: le sfide si disputavano su campo neutro, ma soprattutto incontri tra le due leghe venivano organizzate regolarmente durante tutta la stagione; infine il vero interesse dei tifosi era rivolto alle partite tra le formazioni bianche e nere, che portavano sugli spalti migliaia di tifosi appassionati.

I Philadelphia Hilldales 1920

Ciononostante, le Colored World Series presentarono un ottimo baseball, capace di accontentare anche i palati più fini: nel 1925 gli Hilldales sconfissero i Monarchs per 5-1, mentre l’anno successivo a trionfare furono i Chicago American Giants, vincenti per 5-3 sugli Atlantic City Bacharach Giants; la serie del 1926 sarà ricordata per l’eccezionale prestazione di Red Grier (Atlantic City), che lanciò un no-hitter in gara 3. Per assistere ad un evento simile nelle majors, gli appassionati dovettero aspettare trent’anni, quando Don Larsen ottenne un perfect game nelle World Series del 1956. Le Colored World Series del 1927 presentarono lo stesso scontro dell’anno precedente: ancora una volta a vincere furono gli American Giants, che grazie al lanciatore Willie Foster (futuro Hall of Famer), sconfissero i rivali per 5-3.

Willie Foster

Purtroppo nel 1926 morì Rube Foster e così la NNL perse la propria figura carismatica: cinque stagioni dopo, l’organizzazione scomparve definitivamente, anche se la ECL si era già sciolta tre anni prima. Nel frattempo erano state fondate altre organizzazioni, tra cui la Southern Negro League e l’American Negro League, ma nessuna di queste ebbe una vita lunga, tanto che fallirono dopo pochissimi anni. Ciononostante il black baseball non morì, anzi proseguì il suo successo, sebbene si dovesse aspettare il 1933 per la riorganizzazione della NNL e il 1937 per la nascita della Negro American League.

Gli Homestead Grays 1931

All’inizio degli anni '30 fu fondata una nuova formazione, gli Homestead Grays; questa squadra poteva schierare due autentici fuoriclasse, che ben presto entrarono nel cuore dei tifosi: Buck Leonard, un ottimo prima base (.341 in diciassette anni) e il leggendario Josh Gibson. Quest’ultimo era dotato di due braccia fortissime, tanto che diventò ben presto il giocatore più temuto delle intere Negro Leagues.

Per oltre dieci anni, Gibson non solo fu il miglior fuoricampista (pare che in una stagione ne abbia messi a segno ben 84), ma compilò anche delle medie notevoli; inoltre Gibson, a differenza dei tipici fuoricampisti, era un battitore difficile da eliminare al piatto.

Josh Gibson

Le sue performance lo fecero diventare una leggenda e coinvolsero i tifosi, che riempivano gli stadi un’ora e mezza prima dell’inizio delle partite per poterlo vedere durante il batting practice. Tale era la fama di Gibson che gli fu coniato un soprannome davvero azzeccato: the Black Babe Ruth. In carriera Gibson mise a segno circa 670 (dato non ufficiale) HR. Si racconta che Gibson avesse spedito una palla fuori dallo Yankee Stadium, un’impresa che neanche Ruth e Mantle sarebbero riusciti ad ottenere; si dice anche che in un’altra occasione, Gibson avesse battuto un HR usando un solo braccio. Probabilmente questi due episodi sono frutto della fantasia degli appassionati, tuttavia non sono inverosimili, vista l’eccezionale potenza e forza di cui disponeva Gibson. Se Gibson era il principale battitore, il migliore pitcher era senza dubbio Leroy Satchel Paige: originario dell’Alabama, debuttò a soli diciannove anni (la sua data di nascita non fu mai verificata) nelle Negro Leagues, rimanendo al vertice assoluto per oltre venti stagioni.

Leroy Satchel Paige

Paige indossò la maglia di numerose squadre, tuttavia furono i Kansas City Monarchs ad usufruire maggiormente dei suoi servigi. Satchel Paige era dotato di una straordinaria palla veloce, ma anche di un controllo micidiale, che gli permetteva di pennellare gli angoli della zona dello strike; grazie ad un ineguagliabile bagaglio tecnico, Paige era in grado di lanciare qualunque tipo di palla: la fast ball (da lui chiamata Long Tom), il cambio (Little Tom) e lo slider (Bat Dodger). Tra le altre sue specialità era famoso l’hesitation pitch, un movimento, poi divenuto illegale, con cui ingannava i battitori avversari. La leggenda (non siamo sicuri sulla veridicità di questi numeri) afferma che Paige vincesse dalle trenta alle quaranta partite stagionali, totalizzandone a fine carriera ben 800 con addirittura 29 no-hitter, un’enormità. Paige era un attore consumato e a volte concedeva volontariamente tre basi su ball consecutive con nessun eliminato o chiedeva ai suoi interni di sedersi, per poi annunciare (e ottenere) tre strikeout di fila. Si afferma che i New York Yankees si convinsero pienamente delle potenzialità di Joe DiMaggio solo dopo che Joltin’ Joe riuscì a battere una valida su Paige. Nel 1930 Satchel in un’esibizione eliminò al piatto ben 22 giocatori delle majors, mentre nel 1933 con la maglia dei Pittsburgh Crawfords riuscì a completare una striscia di 62 inning consecutivi senza subire punti. Nel 1934 i Monarchs giocarono una serie di sei partite contro una squadra All-Star capitanata dal grande lanciatore Dizzy Dean: Paige risultò vincente in quattro di quelle sfide.
“Sometimes, because he was tired from pitching too much in a week, Paige would come in and throw nothing but curve balls. Big slow curve balls. He’d tell everybody that’s what he was throwing that day. Didn’t make any difference. Nobody could touch them.” (Paige a volte, poichè era stanco di aver lanciato troppo in una settimana, si metteva a lanciare solo palle curve. Grandi lente palle curve. Diceva a tutti quello che avrebbe lanciato quel giorno. Non faceva alcuna differenza. Nessuno le poteva toccare) - Bob Feller, Cleveland Indians

“What made him great was his fastball. It was overpowering. If he was in the majors today, he would win thirty a year, and strikeout fifteen a game every single night. But he had also fantastic location. He could throw 105 miles an hour and hit a mosquito flying over the outside corner of the plate!” (Ciò che lo ha reso grande era la sua fastball. Era insopportabile. Se oggi fosse in major, avrebbe vinto trenta partite in un anno, e avrebbe realizzato quindici strikeout a partita ogni singola notte. Ma aveva anche fantastica location. Poteva lanciare 105 miglia all'ora e avrebbe colpito una zanzara in volo sopra l'angolo esterno del piatto!) - Double Duty Radcliffe, catcher compagno di Paige

Come detto in precedenza, anche se le sue migliori performance si verificarono con i Monarchs, Paige giocò con diverse altre squadre, compresa The House of David, formazione composta da atleti ebrei con una lunga barba.

Ray Dandridge

Martin Dihigo

James Cool Papa Bell

Ma oltre a Gibson e a Paige ci furono numerosi giocatori che si misero in luce e la cui unica sfortuna fu “nascere troppo presto”. Tra questi ricordiamo Ray Dandridge (definito da Tom Lasorda il miglior terza base di sempre), Martin Dihigo (lanciatore ed esterno di origine cubana) e James Cool Papa Bell: quest’ultimo era talmente veloce che era in grado di segnare su una volata di sacrificio partendo dalla seconda base; si afferma che in una stagione di 200 partite avesse rubato circa 175 basi. Negli anni '30 esplose il fenomeno del barnstorming (comunque già esistente), vale a dire di quei tour organizzati che portavano le squadre da un capo all’altro del paese ed affrontare altre compagini. Ogni formazione giocava un numero relativamente limitato di partite all’interno della propria lega (circa il 33%), perché la maggior parte di incontri era effettuata on the road, con il calendario stilato da ogni squadra. Nel 1931 gli Homestead Grays disputarono 144 partite contro team provenienti da tutta America, perdendone solo sei. I Grays erano famosi per la potenza in attacco e un pitcher di Homestead un giorno affermò, sorridendo: "You knew you’d get ten runs from the Grays, so you didn’t worry. You could have an ERA of 9.30 and win fifteen a season with the Grays!” (Si sapeva che i Grays potevano realizzare dieci punti, quindi non ci si preoccupava. Si poteva avere una ERA di 9.30 e vincere quindici partite in una stagione con i Grays!).

I Newark Eagles 1939

I Kansas City Monarchs 1945

Assieme agli Homestead Grays e ai Newark Eagles, un’altra squadra diventò il simbolo delle Negro Leagues, i Kansas City Monarchs: dal 1931 al 1937 i Monarchs rimasero indipendenti da ogni organizzazione, giocando oltre 200 partite l’anno. Nel 1937 Kansas City rientrò nella Negro American League, vincendo il titolo sette volte in quattordici stagioni. La vita dei giocatori era tutt’altro che facile: gli spostamenti, effettuati con autobus prossimi alla rottamazione, duravano parecchie ore, mentre gli alloggi erano previsti presso alberghi di bassa categoria, essendo i migliori riservati ai bianchi. Particolarmente duri erano i tour nel sud degli Stati Uniti, visto che i giocatori dovevano subire soprusi razzisti d’ogni genere; sovente, non trovando alloggi negli hotel, erano costretti a dormire sugli automezzi. Per procurarsi cibo, i giocatori di pelle leggermente più chiara si recavano presso drogherie e compravano grandi quantità di pane, burro ed acqua. I ritmi di gioco erano impressionanti e molto spesso i giocatori disputavano due o tre partite ogni giorno, sapendo che quella era una fonte sicura di guadagno. Whitey Herzog dei New York Yankees affermò: "I have always felt that what really hurt the black players was the lifestyle. You had guys who would consistently hit .350, despite playing eight games a week, thirty weeks a year, straight. Not only that, but the blacks’ hotel lodgings were always second rate, the restaurants third rate, and they’d ride around the country on those horrible buses. It frightens me, actually frightens me, to imagine how good some of the might have been if they didn’t have to live like that, if they just did a couple of games a week like we did, traveled in nice trains, stayed in the best hotels, ate in the top restaurants"(Ho sempre pensato che ciò che rovinò i giocatori di colore era il loro stile di vita. C’erano ragazzi che battevano regolarmente .350, nonostante giocassero otto partite a settimana, trenta settimane all’anno. Non solo, ma gli alberghi e i ristoranti erano di bassa categoria e viaggiavano per la nazione su quegli orribili automezzi. Mi spaventa veramente immaginare quanto forti alcuni di loro sarebbero diventati se non fossero stati costretti a vivere in quella maniera, se avessero giocato solo qualche partita in una settimana (come facevamo noi), se avessero viaggiato in treni confortevoli, se avessero risieduto nei migliori alberghi e mangiato nei migliori ristoranti).
Tra le varie novità di sicuro successo delle Negro Leagues ricordiamo le partite in notturna (proposte ben prima delle Majors) e la sfida East-West, che comparve nel 1933 (stesso anno dell’All-Star Game “bianco”) e che mise sullo stesso campo i migliori talenti della nazione, portando sugli spalti migliaia di tifosi. Nel 1942 ricomparvero le Colored World Series, che misero di fronte le migliori squadre della NNL e della NAL, offrendo spettacoli di livello assoluto; la prima sfida mise di fronte i Monarchs e i Grays, guidati rispettivamente dai grandissimi Paige e Gibson; a sorpresa Kansas City si aggiudicò il titolo in sole quattro partite, con Paige vincente in tre incontri. Il momento più memorabile accadde in gara 2: al nono inning i Monarchs conducevano per 8-4 e, nonostante un uomo in terza base per i Grays, due facili out da parte di Paige tolsero interesse alla partita; ma Satchel voleva stupire il mondo intero e, dopo aver lanciato volontariamente quattro ball ai due battitori successivi, era pronto a sfidare a basi piene Gibson. Un eventuale fuoricampo avrebbe pareggiato la sfida, ciononostante Paige era conscio del proprio immenso talento: con tre palle veloci alle ginocchia eliminò l’amico rivale, restato fermo e immobile. Homestead conquistò il successo nei due anni successivi, anche se nel 1945 dovettero soccombere 4-0 ai Cleveland Buckeyes.

Nel 1946 si assistette, forse, alle più spettacolari Colored World Series della storia tra i Kansas City Monarchs e i Newark Eagles di Larry Doby, Monte Irvin, Leon Day e Max Manning. Gli Eagles conquistarono il successo e gli innumerevoli osservatori ammisero che il loro livello era nettamente superiore a quello dei St. Louis Cardinals, freschi vincitori delle World Series bianche.

I Birmingham Black Barons 1951

Le ultime due edizioni delle Colored World Series presentarono le vittorie dei New York Cubans e dei soliti Homestead Grays sui Cleveland Buckeyes e sui Birmingham Black Barons, tra le cui fila c’era un ragazzo di nome Willie Mays. Nonostante l’eccellente livello, riconosciuto anche dai migliori giocatori bianchi, i proprietari delle majors continuarono ad opporsi all’integrazione razziale. Lo scenario cambiò improvvisamente nel 1942, quando Branch Rickey diventò il general manager dei Brooklyn Dodgers: Rickey non solo aveva notato il talento dei giocatori di colore, ma si era anche reso conto del numeroso pubblico che seguiva regolarmente le partite: il momento di agire era arrivato. Rickey andò alla ricerca di colui che avrebbe dovuto debuttare nelle majors e rompere le barriere razziali: questo giocatore non doveva semplicemente essere un fuoriclasse assoluto sul campo, ma anche una persona matura in grado di sopportare soprusi e insulti d’ogni genere. Il suo uomo fu Jackie Robinson, che, pur non essendo il miglior giocatore disponibile, era perfetto per il grande salto, avendo la maturità (28 anni) e la solidità psicologica necessarie per resistere a tutte le ingiustizie che sarebbero state compiute nei suoi confronti.

Branch Rickey, a destra, osserva Jackie Robinson mentre firma il contratto nel 1945 che lo lega ai Dodgers

Il 18 aprile 1946 Robinson (dopo aver firmato il contratto l’anno precedente) debuttò con la maglia di Montreal: la partita inaugurale fu eccellente e fu preludio ad un’eccezionale stagione, terminata con una media di .349. Jackie era pronto per entrare nella storia: nel 1947 diventò il primo giocatore nero delle Majors. La sua prima stagione con la maglia dei Brooklyn Dodgers fu ottima e gli valse il premio come rookie dell’anno. Robinson aveva dimostrato anche ai più scettici il valore di tutti i giocatori di colore. Gli inizi tuttavia furono tutt’altro che semplici per lui, facile bersaglio di una moltitudine di tifosi razzisti: tuttavia, Robinson resistette e spianò la strada ai vari Roy Campanella, Monte Irvin, Don Newcombe, ma soprattutto ai mitici Willie Mays e Hank Aaron. Nel 1948 Larry Doby diventò il primo giocatore di colore della American League nei Cleveland Indians, assieme a Satchel Paige, il quale ad oltre quarant’anni diventò il giocatore più vecchio a ricevere il premio come rookie dell’anno: dopo un paio di stagioni nell’Ohio e in seguito nei St. Louis Browns, Paige giocò con i Miami Marlins nell’International League e in seguito con una squadra semi-professionistica. Nel 1965 all’età di sessant’anni fu richiamato nelle majors per un’ultima partita in cui disputò tre inning senza subire punti. Le barriere razziali si erano finalmente rotte, tuttavia i primi anni furono estremamente difficili: molti giocatori di colore furono lasciati nelle minors, nonostante disponessero di un miglior talento rispetto ad alcuni colleghi bianchi. Tuttavia le imprese di Jackie Robinson e compagni segnarono profondamente la storia americana: nel 1949 il presidente Truman terminò la segregazione degli Afro-americani nell’esercito, nel 1954 la Corte Suprema fece lo stesso con le scuole pubbliche, negli anni ’60 il Congresso concesse ai neri il diritto al voto. L’integrazione razziale segnò la fine delle Negro Leagues, anche se la NAL non fu sciolta prima del 1960. Sulle Negro Leagues e sui vari eroi si potrebbe parlare a lungo, ma è opportuno chiudere il capitolo con alcune frasi che racchiudono l’orgoglio di giocatori, cui non fu possibile il debutto nelle majors:

"I never felt that I wasn’t making the money the white players made, or I wasn’t as famous. I just wanted to play baseball. I loved the game. I’d have played for $100 a year, for a dollar. I’d have played for nothing. I’d have paid my own expenses and played for nothing just to get out there on that grass, that dirt, and play baseball" (Non ho mai pensato che non stavo prendendo i soldi che incassavano i giocatori bianchi, o che non ero famoso. Volevo solo giocare a baseball. Mi piaceva il gioco. Avrei giocato per 100 dollari l'anno, per un dollaro. Avrei giocato per niente. Mi sarei pagato le mie spese e avrei giocato per niente solo per arrivare su quel prato, quella terra, e giocare a baseball) - Gene Benson, Philadelphia Stars.

"Baseball fulfilled me like music. I played most of my life and I loved it. Waste no tears for me. I wasn’t born too early. I was born right on time" (Il baseball mi appagò come la musica. Ho giocato la maggior parte della mia vita e mi è piaciuto molto. Non sprecate lacrime per me. Io non sono nato troppo presto. Sono nato giusto in tempo" - Buck O’Neill, Kansas City Monarchs.

Bob Harvey

"I wanted to play baseball and I did. I wanted to play with the best and against the best and I did. Miss the major leagues? I never did" (Volevo giocare a baseball e l'ho fatto. Ho voluto giocare con i migliori e con il meglio e l'ho fatto. Evitare le major leagues? Non l'ho mai fatto) - Bob Harvey, Newark Eagles.

Pat Scantlebury

"I was never bitter about the segregation. That was the way it was in those days. I wanted to play and I could only play in black leagues so I played in black leagues. I always felt, after integration, that our efforts, all those games and all those bus rides, made it possible for Jackie Robinson and those who followed. Yes, we paved the way!" (Non sono mai stato amareggiato per la segregazione. Così stavano le cose in quei giorni. Volevo giocare e ho potuto giocare solo nei campionati neri così ho giocato nei campionati neri. Ho sempre pensato, dopo l'integrazione, che i nostri sforzi, tutte quelle partite e tutte quelle corse in autobus, resero possibile ciò per Jackie Robinson e quelli che l'hanno seguito. Sì, abbiamo aperto la strada!) - Pat Scantlebury, New York Cubans.

Le Franchigie dell'Eastern Colored League (ECL)
Anni: 1923, 1924, 1925, 1926, 1927, 1928

Bacharach Giants di Atlantic City (1923-1928)
Baltimore Black Sox (1923-1928)
Brooklyn Royal Giants (1923-1927)
Cuban Stars (East) (1923-1928)
Hilldale Club di Darby, Pennsylvania (1923-1928)
Lincoln Giants di New York City (1923-1926; 1928)
Harrisburg Giants (1924-1927)
Washington Potomacs (1924)
Newark Stars (1926)
Philadelphia Tigers (1928)

Champions

1923 Hilldale
1924 Hilldale
1925 Hilldale
1926 Bacharach Giants
1927 Bacharach Giants
1928 None

Le Franchigie della Negro American League (NAL)
Anni 1937 al 1950

Birmingham Black Barons (1937-1938; 1940-1950)
Chicago American Giants (1937-1950)
Cincinnati Tigers (1937)
Detroit Stars (1937)
Indianapolis Athletics (1937)
Kansas City Monarchs (1937-1950)
Memphis Red Sox (1937-1950)
St. Louis Stars (1937)
Indianapolis ABC's (1938-1939)
Jacksonville Red Caps (1938; 1941-1942) /Cleveland Bears (1939-1940)
St. Louis Stars (II) (1939)/New Orleans-St. Louis Stars (1940-1941)
Toledo Crawfords (1939)/Indianapolis Crawfords (1940)
Cincinnati Buckeyes (1942)/Cleveland Buckeyes (1943-1948)/Louisville Buckeyes (1949)
Cincinnati Clowns (1943)/Cincinnati-Indianapolis Clowns (1944-1945)/Indianapolis Clowns (1946-1950)
Baltimore Elite Giants (1949-1950) dalla Negro National League
Houston Eagles (1949-1950) dalla Negro National League
New York Cubans (1949-1950) dalla Negro National League
Philadelphia Stars (1949-1950) dalla Negro National League

Champions

1937 Kansas City Monarchs
1938 Memphis Red Sox
1939 Kansas City Monarchs
1940 Kansas City Monarchs
1941 Kansas City Monarchs
1942 Kansas City Monarchs
1943 Birmingham Black Barons
1944 Birmingham Black Barons
1945 Cleveland Buckeyes
1946 Kansas City Monarchs
1947 Cleveland Buckeyes
1948 Birmingham Black Barons
1949 Baltimore Elite Giants
1950 Indianapolis Clowns
1951 Indianapolis Clowns
1952 Indianapolis Clowns
1953 Kansas City Monarchs
1954 Indianapolis Clowns
1955 Birmingham Black Barons (prima metà); Detroit Stars (seconda metà)
1956 Detroit Stars
1957 Kansas City Monarchs

Le Franchigie della prima Negro National League (NNL)
Anni: 1920, 1921, 1922, 1923, 1924, 1925, 1926, 1927, 1928, 1929, 1930, 1931

Chicago American Giants (1920-1931)
Chicago Giants (1920-1921)
Cuban Stars (1920-1930) (conosciuti come "Cincinnati Cubans" nel 1921)
Dayton Marcos (1920; 1926)
Detroit Stars (1920-1931)
Indianapolis ABC's (1920-1926)
Kansas City Monarchs (1920-1931)
St. Louis Giants (1920-1921)
Columbus Buckeyes (1921)
St. Louis Stars (1922-1931)
Cleveland Tate Stars (1922)
Pittsburgh Keystones (1922)
Milwaukee Bears (1923)
Toledo Tigers (1923)
Birmingham Black Barons (1924-1925; 1927-1930)
Cleveland Browns (1924)
Memphis Red Sox (1924-1930)
Cleveland Elites (1926)
Cleveland Hornets (1927)
Cleveland Tigers (1928)
Nashville Elite Giants (1930)
Cleveland Cubs (1931)
Indianapolis ABCs (seconda squadra) (1931)
Louisville White Sox (1931)

Champions

1920 Chicago American Giants
1921 Chicago American Giants
1922 Chicago American Giants
1923 Kansas City Monarchs
1924 Kansas City Monarchs
1925 Kansas City Monarchs
1926 Chicago American Giants
1927 Chicago American Giants
1928 St. Louis Stars
1929 Kansas City Monarchs
1930 St. Louis Stars
1931 St. Louis Stars (Il titolo fu assegnato nostante la stagione non fosse ancora terminata e la Lega chiuse definitivamente i battenti)

Le Franchigie della seconda Negro National League (NNL)
Anni: 1933, 1934, 1935, 1936, 1937, 1938, 1939, 1940, 1941, 1942, 1943, 1944, 1945, 1946, 1947, 1948

Baltimore Black Sox (1933-1934)
Brooklyn Royal Giants (1933)
Cole's American Giants (1933-1934)/Chicago American Giants (1933-1935)
Columbus Blue Birds/Cleveland Giants (1933), cambiando nel corso della stagione in Detroit Stars (1933)
Indianapolis ABC's (1933)
Nashville Elite Giants (1933-1934)/Columbus Elite Giants (1935)/Washington Elite Giants (1936-1937)/Baltimore Elite Giants (1938-1948)
Pittsburgh Crawfords (1933-1938)
Atlantic City Bacharach Giants (1934)
Cleveland Red Sox (1934)
Homestead Grays (1934-1948)
†Newark Dodgers (1934-1935)/Newark Eagles (1936-1948)
Philadelphia Stars (1934-1948)
†Brooklyn Eagles (1935)
New York Cubans (1935-1936; 1939-1948)
New York Black Yankees (1936-1948)
Washington Black Senators (1938)
Harrisburg-St. Louis Stars (1943)
†The Brooklyn Eagles e Newark Dodgers si fusero come Newark Eagles nel 1936.

Champions

1933 Cole's Chicago American Giants (prima parte), Pittsburgh Crawfords (seconda parte con un notevole miglioramento)
1934 Pittsburgh Crawfords
1935 Pittsburgh Crawfords
1936 Pittsburgh Crawfords
1937 Homestead Grays
1938 Homestead Grays
1939 Homestead Grays
1940 Homestead Grays
1941 Homestead Grays
1942 Homestead Grays
1943 Homestead Grays
1944 Homestead Grays
1945 Homestead Grays
1946 Newark Eagles
1947 New York Cubans
1948 Homestead Grays

World Series

Negro National League vs Eastern Colored League

1924 Kansas City Monarchs NNL 5-4 Hilldale Club ECL
1925 Hilldale Club ECL 5-1 Kansas City Monarchs NNL
1926 Chicago American Giants NNL 5-3 Bacharach Giants ECL
1927 Chicago American Giants NNL 5-3 Bacharach Giants ECL

Negro American League vs Negro National League

1942 Kansas City Monarchs NAL 4-0 Homestead Grays NNL
1943 Homestead Grays NNL 4-3 Birmingham Black Barons NAL
1944 Homestead Grays NNL 4-1 Birmingham Black Barons NAL
1945 Cleveland Buckeyes NAL 4-0 Homestead Grays NNL
1946 Newark Eagles NNL 4-3 Kansas City Monarchs NAL
1947 New York Cubans NNL 4-1 Cleveland Buckeyes NAL
1948 Homestead Grays NNL 4-1 Birmingham Black Barons NAL

 

 

I primi giocatori neri nella Major League Baseball

Grazie alla determinazione di Branch Rickey, il baseball pose fine alla dottrina da lungo sancita in America che le razze potevano essere separate eppure uguali anni prima che il governo cominciasse a far vacillare Jim Crow. Jackie Robinson mandò in frantumi nel 1947 il "gentleman’s agreement" (l'accordo verbale) del baseball di escludere i giocatori neri più di un anno prima che il presidente Harry Truman ordinasse all'esercito l'eliminazione della segregazione razziale, sette anni prima che la Corte Suprema ribaltasse Plessy vs. Ferguson (*), e 17 anni prima che il 1964 Civil Rights Act (**) mettesse fuorilegge la discriminazione razziale.

Com'era prevedibile, il percorso del paese verso una società completamente integrata fu esitante e difficile. Quando la Corte Suprema decise all'unanimità con la sentenza Brown vs. Board of Education (***) che "le strutture educative separate sono intrinsecamente inique", il senatore del Mississippi, James Eastland, dichiarò, "Il 17 maggio 1954, la Costituzione degli Stati Uniti è stata distrutta a causa della decisione della Corte Suprema. Non siete obbligati a obbedire alle decisioni di un tribunale, che sono chiaramente delle considerazioni sociologiche fraudolente". Per molto tempo, nonostante la successiva ordinanza della Corte che la desegregazione doveva attuarsi "with all deliberate speed", molte parti del paese fecero di tutto, compreso il ricorso alla violenza, nel dimostrare la loro condivisione del disprezzo di Eastland per la decisione e il concetto di parità dei diritti in generale.

Il Baseball andò allo stesso modo. Alcune squadre abbracciarono rapidamente l'integrazione, sia per ragioni morali, vantaggi agonistici, o potenziali incassi al botteghino, ma altre, in particolare la vecchia guardia dell'American League, dovettero essere sottoposte all'implacabile pressione pubblica prima di dare ai loro fans squadre costituite dai migliori atleti disponibili, e non solo quelli accettabili per la maggior parte dei pregiudizi di base della comunità. La linea di colore non venne distrutta una volta, ma più e più volte, e il processo continua ancora oggi. I 17 giocatori elencati di seguito, i primi giocatori di colore in ciascuna delle rispettive squadre, non devono essere visti come il risultato finale della desegregazione, ma piuttosto come l'inizio.

Indossando le divise della loro squadra, questi uomini hanno portato un tocco di verità alla menzogna - perchè l'unica misura di un uomo nel baseball non è dove sono nati i suoi genitori o quello che sembrano, ma per come giocano bene.

Jackie Robinson

Seconda Base | Brooklyn Dodgers | 15 aprile 1947

Nel rompere la linea del colore, Robinson non liberò una razza, ma due, e il suo sforzo è continuato fino da allora. Gli afro-americani e i latini non bianchi erano ovviamente feriti dal razzismo istituzionale del gioco, ma i giocatori bianchi, anche quelli come Ted Williams, che inveivano contro la segregazione, furono pure umiliati: C'è un asterisco invisibile accanto ai nomi di tutti i partecipanti al baseball bianco, con una leggenda che dice, "giocarono contro non i migliori avversari, ma i migliori avversari bianchi". Dobbiamo addolorarci per il fatto che non sapremo mai quanti fuoricampo avrebbe battuto Josh Gibson se avesse potuto giocare 154 partite l'anno contro i migliori giocatori del suo tempo, ma non potremo neanche mai conoscere la stessa cosa di Babe Ruth. Questo è solo uno dei tanti lasciti di Robinson, il migliore dei quali può essere che ogni volta che una razza o una nazionalità reclama il diritto di poter giocare, venga visto come una novità positiva, non come una crisi o una minaccia. Robinson lo disse meglio: "Il punto di vista a cui sono giunto è che, sono stato giusto con il baseball e anche il baseball lo è stato con me. Il gioco mi ha dato tanto, e io gli ho dato molto".

Larry Doby

Outfield | Cleveland Indians | 5 luglio 1947

Effa Manley, il proprietario dei Newark Eagles della Negro Leagues, disse al proprietario degli Indians Bill Veeck: "Se Doby fosse bianco e un free agent, dovresti dargli 100000 $ per firmare". Avrebbe potuto essere valutato di più, anche se pochi altri videro questo all'inizio. "Doby viene sfruttato", scrisse un giornalista bianco di Cleveland nel 1947 "non perché è un rookie con la possibilità di fare bene, ma perché è un negro". L'anno successivo, Doby colpì .301 BA/ .384 OBP/ .490 SLG durante la stagione regolare e colpì un home run nelle World Series.

Anche se fu il secondo, la sua via non fu meno difficile di Robinson perchè l'impulsivo Veeck non aveva speso molto tempo a sostenere all'interno della sua organizzazione il suo giocatore pionieristico come invece aveva fatto Rickey con Robinson, facendo di Doby, almeno in un primo momento, un uomo senza patria. Non era niente di nuovo: "Non c'era nessuno con cui identificarmi", disse Doby della sua infanzia, "Non potevo dire, ho intenzione di essere un giocatore di major league come queste persone, perché ... non avevo mai pensato che i neri avrebbero giocato a baseball nelle major leagues".

Hank Thompson

Terza base | St. Louis Browns | 17 luglio 1947

Sporting News, una cheerleader per il razzismo a quel tempo, con sede a St. Louis accusò i Browns per aver firmato Thompson e Willard Brown (che fece il suo debutto in seguito), accusandoli di "trucchetti promozionali". La proprietà dei Browns ammise di sperare che "questi ragazzi di colore li avrebbero aiutati al botteghino", ma come per tante altre cose, l'auto proclama della "Bible of Baseball" era sbagliato - Thompson non era una stella, ma era un forte battitore e un terza base, con una media battuta di .267 BA/ .372 OBP / .453 SLG nella sua carriera. L'alcolismo e un debole per la violenza vollero dire un rapido declino e un tempestoso seguito per la sua carriera, ma fu abbastanza buono per integrare due squadre e iniziare in due World Series.

Hank Thompson

Terza base | New York Giants | 8 luglio 1949

Sebbene fosse principalmente una terza base, Thompson era abbastanza atletico da giocare in altri ruoli. Quando Willie Mays entrò nell'esercito nel 1952, il manager Leo Durocher si sentì a suo agio mettendo Thompson al centro per 51 partite. Nel 1953, con Mays ancora in divisa, Thompson colpì .302 BA/ .400 OBP/ .567 SLG in 114 partite. Thompson aveva chiaramente l'abilità fisica per essere un grande, ma altre cose andarono in modo diverso. "Niente era più serio del baseball", disse e poi si corresse: ".. Sì, una cosa il bere".

Sam Jethroe

Outfield | Boston Braves | 18 aprile 1950

"Sembrava che avessimo scoperto il giocatore più rapido da Tyrus Raymond Cobb, quando appese gli spikes", aveva detto il GM dei Braves, John Quinn, acquistando Jethroe dai Dodgers. Già 33enne (e disse di essere più anziano) nel suo anno da rookie, Jethroe giocò solo tre stagioni complete in major e fu leader della NL nelle basi rubate in due di esse. Nella sua carriera ebbe successo in 98 dei 120 tentativi di rubare le basi. "Le basi non sono più distanti nelle majors", aveva detto Jethroe, spiegando il suo successo.

Una minaccia a tutto tondo, che aveva la potenza e la pazienza, nonché la velocità, ma i fans tendevano a concentrarsi sui suoi poveri istinti difensivi, il braccio di tiro debole e una percepita mancanza di energia. I lati positivi mancavano abbondantemente ma tanto dipese dal suo isolamento: Branch Rickey aveva detto a Quinn che Jethroe "aveva bisogno di un compagno" ma i Braves non lo ascoltarono, e la solitudine giocò una buona parte come l'età e gli infortuni spingendo Jethroe a tornare nelle minor. Robinson può averlo preceduto, ricordava Jethroe, ma integrare i Braves "era ancora una cosa difficile da percorrere".

Minnie Minoso

Outfield | Chicago White Sox | 1 maggio 1951

Poteva essere originario di Cuba e giocare nelle major prima del 1947 perchè la sua pelle era abbastanza chiara. Gli Washington Senators scautarono massicciamente l'isola e fecero crescere molti giocatori, tra cui Bobby Estalella (nonno del cacther che giocò nelle majors dal 1996 al 2004), che potevano benissimo essere qualificati come neri in base alle definizioni del tempo - Estallela fu comprensibilmente vago sull'argomento. Minoso è stato il primo latino nero a rompere la linea del colore. Uno dei giocatori più versatili della sua stagione, Minoso poteva fare tutto - battere per la media e la potenza, prendere una base su ball, volare intorno alle basi, ed essere Golden Glove all'esterno sinistro. Il suo approccio fu quello di tenersi sempre molto vicino al piatto (to crowd the plate) e sfidare i lanciatori avversari a lanciare interno con il rischio di colpirlo, e lo colpirono spessissimo - 192 volte. "Questo non spaventava Minnie", si era lamentato il manager degli Yankees, Casey Stengel. Minoso colpì .298 BA/ .389 OBP/ .459 SLG nelle majors e, grazie ai cameo del 1976 e del 1980, fu l'unico giocatore ad apparire in cinque decenni.

Sam Hairston

Catcher | Chicago White Sox | 21 luglio 1951

Il nativo del Mississippi, Sam Hairston (padre e nonno di major leaguers, tra cui Jerry Hairston dei Dodgers e Scott Hairston dei Cubs), incontrò molte riserve quando ruppe la linea del colore degli White Sox. Precedette Minoso, cubano, nel rompere la linea del colore all'interno dell'organizzazione degli White Sox; Minoso era stato precedentemente preso dagli Indians. Catcher degli Indianapolis Clowns, vinse la Triple Crown della Negro American League nel 1950 colpendo .424 con 17 fuoricampo e 71 RBI in una stagione di 70 partite. Le sue statistiche nelle minor integrate, dove giocò per gli White Sox fino all'età di 40 anni, sembravano più simili a quelle del prototipo del classico catcher. Ricevette solo per poco tempo nelle major, ma continuò una lunga carriera come scout. In quel ruolo, ebbe il piacere di firmare suo figlio Jerry.

Bob Trice

Pitcher | Philadelphia A's | 13 settembre 1953

Con il tempo Trice fece il suo debutto con quello che rimaneva dei grandi A's di Connie Mack di una volta. Jackie Robinson era a una settimana dal completare la sua settima stagione in major e le squadre che erano state all'avanguardia nell'uguaglianza erano già andate al secondo e al terzo posto, con giocatori come Satchel Paige, Monte Irvin, Roy Campanella, Don Newcombe e Luke Easter che lavoravano sodo per vincere le partite per le loro squadre, mentre eravamo ancora nel buio razziale con ancora più della metà delle majors da integrare. La concessione di Mack per l'integrazione fu di assumere il grande delle Negro Leagues Judy Johnson come scout. Johnson prese il suo lavoro seriamente e portò agli A's Doby e Minoso. Mack si rifiutò di firmarli. Se li avesse avuti, disse Johnson più tardi, "gli A's sarebbero ancora a Philadelphia". "Mi era stato consigliato che non c'erano molti ragazzi negri che giocavano a baseball", disse Mack fiaccamente nel 1949.

Trice lanciò due stagioni per gli Homestead Grays prima di entrare nell'organizzazione degli A's, guadagnandosi la chiamata dopo aver vinto sia il Pitcher of the Year dell'International League e il Rookie of the Year award per Ottawa nel 1953. Ciò nonostante, Trice non trovò mai una sua collocazione nelle major, e a un certo punto chiese di essere rispedito a Ottawa. "Dal momento che non riesco a vincere nella mia attuale disposizione mentale ", disse, "la squadra non dovrebbe mancarmi". Vic Power sarebbe diventato il primo giocatore di colore fisso della squadra nel 1954.

Ernie Banks

Interbase | Chicago Cubs | 17 settembre 1953

Era stato Gene Baker compagno di squadra di Satchel Paige ai Kansas City Monarchs che disse: "Non guardare indietro, qualcosa potrebbe gradualmente avvicinarsi". Nel caso di Baker, era Banks nello specchietto retrovisore. Baker precedette Banks come interbase dei Monarchs e firmò con i Cubs per primo. Giocò nella Pacific Coast League, e lì rimase, anche se i Cubs erano alla disperata ricerca di un interbase. Baker sembrò che avesse vinto un posto in squadra durante la spring training nel 1953, ma fu fatto scendere comunque nelle minor. "Sono un anno di distanza", scrisse Sam Lacey nel Baltimore Afro-American, "Banks sarà un anno di distanza, quando ne avrà 60". La battuta maligna piacque e la pressione aiutò i Cubs a fare un cambiamento, e il 22enne futuro "Mr. Cub" venne firmato per dare a Baker qualcuno con cui parlare. "Gee whiz" (tipica espressione americana di stupore) si lamentò il proprietario dei Cubs, P.K. Wrigley, "stiamo portando su un giocatore nero. Perché disturbarsi a prenderne un altro?". Fondamentalmente offeso Baker osservò dalla panchina Banks diventare il primo afro-americano dei Cubs. Più tardi, i due avrebbero giocato in squadra assieme come la prima combinazione di doppio-play tutto nero.

Wrigley si era difeso costringendo i Negro Leaguers a rimanere nella farm. "In qualsiasi businnes non si inizia dall'alto", aveva detto. Banks era andato direttamente dai Monarchs alle Major, rivelando che la posizione di Wrigley non era meritocratica, ma in realtà il suo esatto contrario.

Curt Roberts

Seconda Base | Pittsburgh Pirates | 13 aprile 1954

Bisognò che Branch Rickey diventasse GM dei Pirates perchè il club si integrasse. Roberts aveva cominciato nelle Negro Leagues con i Monarchs. Quando debuttò nelle minor bianche con Denver della Western League, i lanciatori cercarono di trasformarlo nell'equivalente di una puntaspilli, colpendolo ben quattro volte in una partita. A loro credito, i pitchers della major league lo colpirono solo due volte. Roberts intoppò in diversi handicap nelle major: in primo luogo, per la fretta di ricostruire i derelitti Pirates, Rickey precipitò Roberts su dai Denver Bears, nella classe A della Western League, dov'era stato il secondo base All-Star nel 1953, ma lui non era pronto. In secondo luogo, non poteva vedere quello che stava facendo. Roberts colpì inizialmente .219 BA / .280 OBP/ .285 SLG, poi migliorò per il resto della stagione .248 BA/ .341 OBP/ .324 SLG. Ma non era abbastanza per mantenere il suo posto di lavoro, o forse erano i 24 errori che aveva fatto in seconda base che furono la sua rovina. Trascorse la maggior parte dei successivi nove anni nelle minor, dove avrebbe compilato una media di .293 in carriera.

Tom Alston

Prima Base | St. Louis Cardinals | 13 aprile 1954

St. Louis era ancora una città segregata quando Tom Alston ruppe la linea del colore con i Cardinals. Tutto il merito fu del proprietario Gussie Busch, che aveva acquistato un club bianco ("Siamo stati ... una squadra del Sud", disse l'ex proprietario Fred Saigh), e annunciò "una nuova politica in materia di giocatori di baseball neri", comprando Alston da San Diego della Pacific Coast League per una somma di 125000 $.

L'intenzione era nobile, ma la realizzazione fu scarsa - anche se ben piantato (1,96 m) il prima base Alston era più un difensore che uno slugger. "Three-T-Tom" ("Tall, tan, and terrific") aveva già 28 anni, più vecchio della sua età dichiarata. Erano due strike per Alston, e il terzo fu il suo isolamento in una squadra che non era nota per l'atteggiamento progressista. "Penso che abbiamo un giocatore vero in questo ragazzo di colore", aveva dichiarato il tecnico Eddie Stanky. Commenti del genere, per quanto ben intenzionati, probabilmente non aiutarono. I Cards acquisirono il lanciatore Brooks Ulysses "Bull" Lawrence nel mese di giugno, in parte per far compagnia ad Alston. Lawrence riferì che Alston andava a battere supplicando con se stesso e ripetendo: "Posso battere, posso battere, posso battere". Alcune fonti dicono che avesse problemi psicologici, altri una malattia della tiroide. Qualunque sia la causa il suo soggiorno nelle major fu breve e infelice.

Nino Escalera

Utility | Cincinnati Reds | 17 aprile 1954

Santurnino Escalera da Puerto Rico fu il primo giocatore nero nella storia dei Reds, ma perché era latino anziché afro-americano; coloro che amano analizzare queste cose a volte identificano il giocatore che ruppe la barriera con Chuck Harmon. Entrambi i giocatori fecero il loro debutto in major league nella parte alta del 7° inning della stessa partita, come pinch-hitters, uno dopo l'altro - Escalera andò a battere per primo. Con .271 BA/ .348 OBP/ .380 SLG in carriera in Triplo-A, l'outfielder ottenne solo una breve prova con i Reds e colpì .159 in un ruolo di riserva. Anche se rimase nelle minor fino al 1962 non ricevette mai un'altra chiamata.

Chuck Harmon

Utility | Cincinnati Reds | 17 aprile 1954

Harmon ottenne più della prova sperimentale di Escalera, giocando quasi regolarmente nel ruolo di utility sia nel 1954 che nel 1955. I due giocarono assieme nelle farm dei Reds, e a Tulsa condivisero l'esperienza di essere cacciati fuori da taxi per "soli bianchi" da un poliziotto - Rickey fu lungimirante nel mandare Robinson nelle minor a Montreal, invece di mandare Harmon e Escalera in una squadra di doppio-A a Mobile, Alabama. Ma la maggior parte degli altri team non avevano a cuore le conseguenze derivanti dall'affrontare non solo il baseball ma il Jim Crow South sui propri giocatori. Così fu per Hank Aaron mandato a Jacksonville, Dick Allen a Little Rock, e così via. Le cicatrici risultanti furono reali e durature. Eppure, i Reds e i loro fans erano molto ospitali. "Non ricordo che nessuno dicesse nulla di offensivo nei miei confronti", disse Harmon a Jules Tygiel. Aggiunse l'outfielder Bob Thurman, che si unì al team l'anno successivo: "Si parla di una famiglia. Questo è il più grande gruppo di ragazzi che hai sempre desiderato avere attorno a te. Non pensavano niente di qualsiasi colore".

Carlos Paula

Outfield | Washington Senators | 6 settembre 1954

I Senators sono ricordati come una squadra perennemente nella parte bassa della classifica, ma nei primi anni di proprietà di Clark Griffith vinsero tre pennant. Nel momento in cui erano per lo più in caduta, fecero subito resistenza alla prima delle innovazioni di Rickey, il sistema delle farms, e poi rifiutarono di abbracciare il secondo, l'integrazione. Erano, però, davanti a tutte le altre franchigie nell'isola di Cuba, che brulicava dei loro scouts. Ma non giovò loro quasi nulla a causa del bigottismo della proprietà. Calvin Griffith spiegò la sua decisione di trasferire la squadra a Minneapolis-St. Paul: Washington era diventata una città a maggioranza nera. "Te lo dico io perché siamo venuti a Minnesota. E' stato quando abbiamo scoperto che c'erano solo 15000 neri qui", disse, "I neri non vanno ai ballgames ... Siamo venuti qui perché c'è gente bianca brava e laboriosa".

Paula fu la timida concessione del team alle nuove realtà. Osservava Shirley Povich del Washington Post: "Il signor Griffith darebbe ai fans di Washington giocatori scuri da altre terre, ma mai un negro americano". Paula giocò regolarmente nel 1955, colpendo .299 BA/ .332 OBP/ .447 SLG (.335 BA/ .361 OBP/ .513 SLG lontano dal brutale ballpark di casa), ma era un macellaio in difesa e un pollo sui lanci off-speed, fu ben presto rimandato di nuovo nelle minor.

Elston Howard


Catcher / Outfield | New York Yankees | 15 aprile 1955

L'anziano manager degli Yankees usava un linguaggio razzista, ma non era un razzista (certamente una sottile distinzione), il GM George Weiss parlava più educatamente, almeno in pubblico, ma era solo. Per tutto il tempo, gli Yankees insistettero che si trattava di una mancanza di candidati qualificati, non di razzismo, che aveva mantenuto la squadra prettamente bianca. Quando lo schietto Vic Power (si racconta che un direttore di un ristorante gli disse che non servivano persone di colore, Power rispose: "Va bene - io non mangio i neri"), combinò delle formance dominanti in battuta nelle alte minor, sembrò che gli Yankees fossero costretti a promuoverlo o ammettere la loro intolleranza. Invece lo scambiarono, e l'affermazione che si trattava di una pura mossa di baseball non ingannò nessuno. "Ma, ma, ma", gli Yankees balbettarono, "abbiamo ancora Ellie Howard!". A quel punto, l'integrazione degli Yankees venne assicurata, evitando rischi, Howard aveva vinto l'MVP dell'International League nel 1954.

Forte ma pacato, Howard dovette superare il cambiamento di posizione dal campo esterno a catcher, che permetteva al club di utilizzare Yogi Berra come scusa per tenerlo in panchina, e il modo in cui le dimensioni dello Yankee Stadium uccideva i battitori destri - nella sua carriera colpì 53 home run nel Bronx, 114 in altri ballparks. Tuttavia, fece parte della squadra All-Star in nove stagioni e fu votato MVP dell'AL nel 1963. Gli Yankees non avrebbero inserito un secondo giocatore afro-americano fino a dopo il pensionamento forzato di Weiss nel 1960.

John Kennedy


Interbase | Philadelphia Phillies | 22 aprile 1957

Jackie Robinson aveva completato la sua carriera in major league e si ritirò quando i Phillies ruppero la linea del colore. Il club che si era fatto tristemente conoscere per i loro insulti razzisti a Robinson nella sua stagione da rookie rimasero fedeli alla segregazione. Il proprietario Bob Carpenter con le stesse trite scuse degli altri oppositori, lamentava la mancanza di candidati qualificati e insisteva che non avrebbero "sfruttato" i giocatori di colore inserendoli nel roster "solo per il gusto di farlo". Invece, inviò alla NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) un elenco di 43 dipendenti delle minoranze del club e tutti ricoprivano umili posizioni.

Quando Robinson annunciò il suo ritiro, fece una stoccata finale ai Phillies, Tigers e Red Sox: "Se 13 squadre della Major League possono emergere con giocatori di colore, perché non possono farlo le altre tre ?". I Phillies risposero firmando Kennedy, non un prospetto e già 30enne, dandogli cinque partite e due at-bats prima di toglierlo dal roster. La concessione solo simbolica era evidente: quasi tutti i primi giocatori neri furono stelle perché la capacità innegabile era l'unico modo per costringere le loro squadre a promuoverli. Come aveva detto il GM degli Yankees Weiss, per il primo Yankee nero si doveva avere "la pena di aspettare". Con tale norma, una squadra poteva firmare tutti i giocatori di colore che voleva e aspettare per sempre. Ai Cubani, Chico Fernandez, Pancho Herrera, e Tony Taylor furono successivamente date delle prove più leali con i Phillies.

Ossie Virgil


Utility | Detroit Tigers | 6 giugno 1958

Lo sportswriter Wendell Smith descriveva il proprietario dei Tigers Walter Briggs così: "Oh, così prevenuto. E' la combinazione della major league di Simon Legree e Adolf Hitler". Briggs sarebbe morto senza integrare i Tigers. Sei anni dopo, ci volle la minaccia di un boicottaggio contro la squadra per portare l'utility infielder Dominicano Ossie Virgil (padre del ricevitore dei Phillies Ozzie Virgil degli anni '80) alle major. Con .231 BA / .263 OBP/ .331 SLG in carriera, Virgil trascorse parte delle tre stagioni con la squadra. Larry Doby, che brevemente si unì ai Tigers nel 1959, fu il primo afro-americano del club. La seconda base Jake Woods diventò il primo afro-americano regolare della squadra nel 1961, ma non fu fino all'inserimento di Willie Horton, nel 1965, che la squadra ebbe la sua prima stella nera. Oltre a due secondi posti, i Tigers non furono competitivi dal 1948 al 1965.

Pumpsie Green

Infield | Boston Red Sox | 21 luglio 1959

I Red Sox di Tom Yawkey furono l'ultima squadra ad integrare. Eddie Collins, vicepresidente di Yawkey dal 1933 fino alla sua morte nel 1951, aveva scritto nel 1945 che: "Sono legato ai Red Sox da dodici anni e in questo periodo non abbiamo mai avuto una sola richiesta per un tryout da un candidato di colore. E' oltre la mia comprensione come si possa insinuare che tutti i giocatori di baseball, senza distinzione di razza, colore o credo, non sono stati trattati in modo americano nell'avere la stessa possibilità di giocare con i Red Sox". La dichiarazione di Collins era un bluff, Wendell Smith pianificò di portare Jackie Robinson, Sam Jethroe e Marvin Williams al Fenway per provare. Come i coaches sottoponevano i giocatori ai drills, qualcuno - avrebbe potuto essere Yawkey, Collins, o il manager Joe Cronin, nessuno dei quali vi partecipava - gridava: "Mandate fuori quei negri dal campo!" I Sox non diedero mai seguito a questi grandi giocatori, e più tardi ci passò pure Willie Mays.

Carl Yastrzemski ricordava Yawkey che piagnucolava: "Non pensi che avrei preferito firmare un Willie Mays invece di un Gary Geiger?". Questa era una bugia auto giustificativa. Mentre Yawkey era troppo intelligente per dire molto altro sull'atteggiamento razzista del club, il suo compagno di bevute, manager e general manager Pinky Higgins era senza vergogna e teneva una sua posizione chiara, dicendo: "Non ci saranno negri su questo ballclub finché ho qualcosa da dire a riguardo". Aveva cercato di far deragliare anche la promozione dell'utility infielder Green, ma a quel punto le voci di protesta erano troppo forti - e a Yawkey erano necessari i leader civici dalla sua parte per un nuovo ballpark.

Nel frattempo, i Red Sox soffrirono in campo per mancanza di talento. Non c'era maledizione del Bambino, giusto la maledizione del bigottismo di Yawkey. Green mal si adattava a romperlo, essendo un giocatore dalle capacità e dal temperamento modeste. Il club sarebbe rimasto senza stelle afro-americane fino all'arrivo di George Scott e Reggie Smith nel 1966 - non è un caso che i Red Sox andarono alle World Series per la prima volta in 21 anni nella stagione successiva.

La lotta per la libertà non appartiene a nessuna generazione, ma continua per sempre. Come abbiamo visto, Jackie Robinson generò la rottura del razzismo istituzionalizzato nel baseball, ma fu molti anni prima che si spezzasse. Per anni ci fu una regola non scritta che una squadra non poteva schierare una maggioranza di neri nel lineup, e quindi di non poter schierare un lineup completamente nero (i Pittsburgh Pirates diventarono la prima squadra a farlo nel 1971). Trent'anni dopo che Robinson aveva rotto la linea del colore, il dirigente dei Dodgers Al Campanis dichiarò alla televisione nazionale che i neri, "non possono avere alcuna possibilità di essere, diciamo, un manager, o forse un general manager". Ci sono stati grandi progressi da allora, e il baseball può puntare con orgoglio ai managers delle minoranze e ai general managers che hanno conquistato trofei delle World Series negli ultimi anni. Eppure, Jackie Robinson Day è una festa della vita, non un ricordo di un evento di tanto tempo fa, ma una notifica che questi fantasmi riposano inquieti, e il lavoro che lui iniziò non sarà mai finito.

(*) Plessy v. Ferguson è un caso della Corte Suprema del 1896 che confermava il diritto degli Stati di approvare leggi che consentono o addirittura richiedono la segregazione razziale nelle istituzioni pubbliche e private, come le scuole, trasporti pubblici, servizi igienici e ristoranti. Il caso aveva rafforzato la capacità degli stati sudisti di approvare le leggi di Jim Crow che discriminavano gli afroamericani e le altre minoranze, e sancì la dottrina di "separati ma uguali" come principio guida nelle relazioni razziali americane e dei servizi pubblici. "Separati ma uguali" rimase la legge del paese dopo Plessy v. Ferguson fino a quando la Corte Suprema invalidò questo caso con la decisione del 1954 contro la segregazione nel Brown vs. Board of Education.

(**) Il Civil Rights Act del 1964 è una legge degli Stati Uniti, che dichiarò illegali le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche in generale ("public accommodations"). Quando la legge divenne esecutiva produsse effetti di vasta portata ed ebbe un enorme impatto a lungo termine in tutto il Paese. Vietò la discriminazione nelle strutture pubbliche, nel governo e in materia di occupazione, invalidando le leggi Jim Crow nel sud degli Stati Uniti. Divenne illegale mantenere la segregazione in base all'etnia nei concorsi per scuole, alloggi o assunzioni.

(***) Brown et Al. c/ Board of Education of Topeka et Al. (Brown e altri contro l'ufficio scolastico di Topeka e altri) è una sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti, pubblicata il 17 maggio 1954 (sentenza 347 U.S. 483). Ad essa ci si riferisce, normalmente, come a Brown v. Board of Education (Brown contro l'ufficio scolastico). La sentenza ha dichiarato incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Una sentenza complementare sullo stesso caso fu pubblicata il 31 maggio 1955 (349 U.S. 294): le due sentenze sono, per questo motivo, anche citate come Brown I e Brown II. Questa sentenza è senza dubbio la più importante delle decisione della corte Warren. Da un punto di vista tecnico la sentenza Brown è applicabile solamente al sistema di educazione pubblica degli Stati; tuttavia la sentenza Bolling v. Sharpe 349 U.S. 497 (1954), meno conosciuta e pubblicata lo stesso giorno della precedente, estende l'obbligo anche al governo federale.

"Breaking the barrier: Integrating the major leagues one team at a time 1947-1959" di Steven Goldman, 11 aprile 2013

Nota:

Nel corso del 1880, Mosè Fleetwood Walker aveva giocato per i Toledo Blue Stockings dell'American Association (anche suo fratello Welday Walker aveva giocato qualche partita con il club), e fu essenzialmente contro di lui che la "line" venne originariamente disegnata.

 

 

EDDIE GAEDEL
Un nano alla battuta

Eddie Gaedel immortalato nella sua unica apparizione

Eddie Gaedel

St. Louis Browns - No. 1/8
Nato: 8 Giugno1925 - Morto: 18 Giugno 1961 (36 anni)
Batte: destro - Tira: sinistro
Debutto nella MLB: 19 agosto 1951 per i St. Louis Browns
Ultima partita: 19 agosto 1951 per i St. Louis Browns
Statistica in carriera
Media battuta: .000
Home runs: 0
Punti battuti: 0

Nella lunga storia della Major League Baseball (ma anche dello sport nordamericano in generale) ci sono stati numerosi personaggi che hanno fatto spesso parlare di sé per i propri atteggiamenti al di sopra delle righe: uno di questi fu sicuramente Bill Veeck, colorito proprietario di Cleveland Indians, St. Louis Browns e Chicago White Sox, divenuto famoso per le sue trovate ed innovazioni.

Tra le otto squadre che nel 1901 debuttarono nella nuova American League erano presenti i Milwaukee Brewers; l'anno successivo i Brewers si trasferirono nel Missouri, diventando i St. Louis Browns; al termine della stagione 1953, i Browns si trasferirono nel Maryland, diventando i nuovi Baltimore Orioles. Poiché nella storia Baseball ci sono state diverse squadre chiamate Baltimore Orioles, è importante non confondere franchigie differenti ma con lo stesso nome.

Veeck fece spesso parlare di sé per le sue proposte (bande di musicisti oppure fuochi artificiali al termine delle partite), spesso ideate per aumentare il consenso dei tifosi ed attirarli allo stadio; Veeck, inoltre, fu il primo che inserì sul retro delle maglie il nome dei giocatori. Tuttavia, il momento più ricordato nella carriera dirigenziale di Bill Veeck avvenne il 19 agosto 1951, quando era alla guida dei St. Louis Browns, una squadra piuttosto deludente; in quello stesso anno veniva festeggiato il 50esimo anniversario della American League e per celebrare degnamente quell'evento, Veeck annunciò una sorpresa per la partita contro i Detroit Tigers: ovviamente l'eccentrico dirigente voleva richiamare più tifosi possibili allo stadio e, infatti, per quell'incontro ben 18.000 appassionati si recarono allo Sportman's Park di St. Louis. Chiusa la parte alta dell'inning iniziale senza segnare, i Tigers si stavano preparando al loro turno difensivo, quando improvvisamente entrò in campo una carrozza da cui uscì un personaggio alquanto singolare, Eddie Gaedel: questo "giocatore" aveva ventisei anni di età, ma era alto poco più di un metro (3 piedi e 7 pollici) e vestiva una minuta divisa con il numero 1/8 (ora conservata nella Hall of Fame). Gaedel si presentò in battuta, munito di una mazza giocattolo, ma ovviamente scatenò una serie di discussioni, sedate quando il manager presentò un regolare contratto: il "nanerottolo" poté quindi sistemarsi nel box, sebbene dovesse attendere che i giocatori di Detroit (in particolare il pitcher Bob Cain) smettessero di ridere. Il lanciatore cercò di trovare la zona dello strike, ma purtroppo, collezionò quattro ball (probabilmente strike contro battitori normali), permettendo a Gaedel di raggiungere la prima base; non appena toccò il cuscino, il piccolissimo giocatore fu sostituito da un pinch runner, Jim Delsing esterno centro titolare, ma ricevette una strepitosa standing ovation da parte degli spettatori. Esiste addirittura un retroscena (anche se non siamo certi della sua veridicità): si racconta che Bill Veeck avesse intimato Gaedel di non girare la mazza, altrimenti un cecchino, nascosto tra il pubblico, avrebbe sparato. Gaedel, ovviamente, terminò in quel momento la propria carriera, stabilendo un record che non sarà mai battuto: con 3 piedi e 7 pollici, sarà ricordato per sempre come il giocatore più piccolo nella storia della Major League Baseball. Questo episodio, in ogni caso, non fu gradito dal presidente dell'American League Will Harridge che criticò aspramente Veeck; fortunatamente Gaedel fu inserito in una situazione non decisiva (se fosse entrato con le basi piene, avremmo assistito ad una vera e propria farsa) e alla fine i Tigers vinsero 6-2. Dieci anni dopo il piccolissimo giocatore, ormai trentaseienne, fu misteriosamente assassinato a Chicago e Bob Cain gli rese omaggio partecipando ai funerali, rimanendo però colpito dalla piccolezza della bara. D'altro canto è giusto affermare che Veeck, nonostante la partita di Eddie Gaedel, fu davvero un dirigente eccezionale come dimostrato da alcuni dati inconfutabili: tutte le squadre da lui guidate stabilirono numerosi record di spettatori; inoltre, i Cleveland riuscirono a vincere il titolo mondiale nel 1948 (l'unico nella storia degli Indians), mentre nel 1958 i White Sox raggiunsero le World Series per la prima (ma non ultima volta) dopo lo scandalo dei Black Sox, avvenuto quarant'anni prima. Non va dimenticato che Veeck fu tra i fautori dell'integrazione razziale e non sorprende che siano stati proprio i suoi Cleveland Indians ad ingaggiare Larry Doby, il primo giocatore di colore della American League; inoltre, si pensa che se qualche anno prima fosse riuscito ad acquistare i Philadelphia Phillies, Veeck avrebbe fatto debuttare numerosi campioni provenienti dalle Negro Leagues. Veeck morì nel 1987 a 83 anni e nel 1991 fu giustamente eletto nella Hall of Fame.

"I'd have given my right arm just to have gotten one strike on him!" - Bob Cain.

La casacca di Eddie Gaedel conservata nella Hall of Fame

 

 

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera (aggiornata al 2007 da PB)

I Boston Red Sox sono una delle più antiche squadre professionistiche di baseball della MLB.

La Storia

La nascita

Nel 1901 Ban Johnson, presidente della Western League, decise di trasformare la sua lega in una major league, dando vita alla American League. Nel progetto di Johnson non c'era l'idea di una squadra a Boston: la città del Massachusset già possedeva una compagine professionistica di baseball, i Boston Braves, che militavano nella National League. Tuttavia, grazie alle pressioni e all'intraprendenza del magnate dell'industria del carbone Charlie Somers, anche Boston entrò nel circuito dell'American League ospitando la squadra dei Red Sox che diventarono una delle otto fondatrici della neonata lega. In realtà il nomignolo Red Stockings era già stato dei Braves nei primi anni della National League, abbinato alla squadra proprio per le calze da gioco di colore rosso; nei primi anni di vita gli attuali Red Sox erano conosciuti come Boston Somersets, nomignolo in onore del proprietario, e poi Boston Americans.

Gli anni delle vittorie

I Boston Red Sox cominciarono la loro presenza nella lega subito con il favore dei pronostici: come gran parte delle altre squadre della American League anche i Red Sox avevano rafforzato la propria rosa attirando numerosi giocatori militanti nel Senior Circuit con la concessione di salari più elevati. Grazie a giocatori quali Jimmy Collins, Patsy Dougherty, Buck Freeman, Chick Stahl e soprattutto Cy Young i Red Sox si aggiudicarono il pennant nell'anno 1903 e giocarono le appena istituite World Series contro i Pittsburgh Pirates, vincendo 5-3 la serie finale (che allora si disputava al meglio delle 9 partite), dopo una incredibile rimonta cominciata dal 3-1. Nel 1904 i Red Sox riconquistarono il pennant della American League ma John T. Brush, l'allora proprietario dei New York Giants, campioni della National League, si rifiutò di far disputare alla propria squadra la serie finale e le World Series furono cancellate. Gli anni successivi furono per i Red Sox anni di alti e bassi ma in cui la società ricostruì una solida base per vincere; infatti, nel 1912, anno di inaugurazione dello storico Fenway Park, i Boston Red Sox tornarono in cima alla American League con una incredibile stagione da 105 vittorie e 47 sconfitte. Nelle World Series affrontarono i Giants vincendo 4-3 la serie (ormai al meglio delle sette), ribaltando nel decimo inning di gara 7 il risultato che li vedeva in svantaggio per 2-1. Gli anni successivi furono ancora anni di costruzione per la società che si assicuro giocatori importanti quali Carl Mays, Ernie Shore, Dutch Leonard, ma soprattutto il primo anno George Herman Ruth, in futuro conosciuto più semplicemente come Babe Ruth, il più grande giocatore della storia della MLB.

L'era di Babe Ruth

Con una squadra molto ben attrezzata i Boston Red Sox vinsero l'American League nel 1915 e l'anno successivo, aggiudicandosi inoltre in entrambi gli anni le World Series, prima contro i Philadelphia Phillies e successivamente contro i Brooklyn Robins. Il 1917 fu per i Red Sox un anno difficile, segnato da un evento che avrebbe influito sull'intero futuro della franchigia: il proprietario Joe Lannin, in seguito ad una crisi finanziaria cedette la squadra al produttore teatrale Harry Frazee. Sotto la nuova proprietà i Red Sox disputarono un eccellente campionato ma furono preceduti nella classifica della America League dai Chicago White Sox, che si aggiudicarono anche le World Series. L'anno successivo, segnato dal cambiamento di ruolo di Babe Ruth, i Red Sox tornarono a comandare la American League e si ripresentarono per la terza volta in 4 anni alle World Series dove affrontarono i Chicago Cubs conquistando il quinto titolo della loro storia. Nonostante il gran numero di successi e l'indubbio dominio dimostrato dai Red Sox nel corso dei primi 17 anni di storia della lega, il proprietario Harry Frazee a fine decennio cominciò l'opera di smantellamento della rosa che porto la squadra nel 1918 ad ottenere un bilancio inferiore al 50%. Il peggio doveva comunque ancora venire: il 9 gennaio 1920, per la somma di 125.000 dollari, Frazee cedette Babe Ruth ai New York Yankees per finanziare uno dei suoi peggiori spettacoli a Broadway, "No-No-Nanette"; veniva commesso quello che i tifosi dei Red Sox da allora ricordano come the Crime of the Century. Con Babe Ruth gli Yankees vinsero per 8 volte la American League, aggiudicandosi per 4 volte le World Series e intraprendendo la strada che li porterà a diventare una delle più famose squadre di sport professionistico al mondo mentre per i Red Sox, colpiti dalla "maledizione del Bambino", comincerà un periodo fatto di delusioni e sorprendenti sconfitte durato 86 anni.

Gli anni della maledizione

Nei primi quattordici anni, la "maledizione del Bambino" fu per i Red Sox terribile: ultimi per nove volte, penultimi per due, si riaffacciarono alla post-season solo nel 1945; negli stessi anni gli Yankees, con cui nel frattempo cominciò una delle rivalità storiche dello sport porfessionistico americano, vinsero 10 titoli. Nel 1946 i Red Sox tornarono in vetta alla American League, riconquistando l'accesso alle World Series, soprattutto grazie all'apporto di Ted Williams, uno dei più grandi battitori della storia, ingaggiato qualche anno prima; nella serie finale però la squadra giocò al di sotto delle aspettative perdendo in sette gare con gli sfavoriti St.Louis Cardinals. Dopo due anni, nel 1948, i Red Sox costrinsero i Cleveland Indians ad uno spareggio per la conquista del pennant e anche in questo caso la formazione di Boston vide finire in anticipo la strada verso il titolo. L'ultima opportunità di quella che i tifosi ricordano con l' "era di Ted Sox" si presentò nel 1950: i Red Sox guidavano l'American League a due turni dalla fine, ma persero entrambi gli incontri con i rivali Yankees lasciandosi sfuggire il pennant per l'ennesima volta. Gli anni che seguirono furono nuovamente anni difficili per la squadra, che solo nel 1967 riuscì a riconquistare la vetta dell'American League e la possibilità di partecipare alle World Series dopo una rimonta ai danni dei Minnesota Twins e dei Detroit Tigers. Ancora una volta di fronte ai Red Sox si presentarono i St.Louis Cardinals, e ancora una volta Boston perse la serie in sette partite. Dopo un altro colpo inferto dalla "maledizione del Bambino" nel finale della stagione 1972, quando i Red Sox persero in maniera roccambolesca gli incontri decisivi con i Tigers ritrovandosi con mezza partita di scarto in classifica e vedendo precluso il loro accesso alla post-season, nel 1975 la squadra visse una delle migliori stagioni della propria storia. Durante la regular-season comandarono agevolmente la loro division, nel turno di playoffs eliminarono in quattro gare gli Oakland Athletics e si presentano alle World Series contro i Cincinnati Reds ancora una volta con i favori del pronostico; tuttavia dopo una facile vittoria in gara 1 Boston fu costretta più volte ad inseguire, portando la serie a gara 7 dove i Reds conquistarono il secondo titolo della loro storia. I Boston Red Sox venivano ancora una volta sconfitti alle World Series in 7 gare. Nel 1978 ancora una volta la squadra guidava la propria Division con quattro partite di lunghezza sui rivali Yankees, quando, in una serie di quattro gare autunnali al Fenway Park, New York ribaltò la situazione, dominando in tutti e quattro gli incontri con dei punteggi incredibili. Gli Yankees chiusero rispettivamente con 15-3, 13-2, 7-0, 7-4 in quello che gli annali di baseball ricordano come il "Boston Massacre". Ciò nonostante i Red Sox rimasero appaiati agli Yankees per il proseguo della stagione e costrinsero la squadra new yorkese ad uno spareggio: New York vinse e ancora una volta Boston vide sfumare le sue possibilità di interrompere la maledizione. Trascorsero ancora anni difficili fino a che nella stagione 1986 i Red Sox, guidati da Roger Clemens, uno dei migliori lanciatori di ogni epoca, raggiunsero per l'ennesima volta le World Series: ad affrontarli c'erano i New York Mets che riuscirono a portare la forte squadra di Boston a gara 6; in quella partita un errore del prima base Bill Buckner consentì ai Mets di ribaltare un risultato che ormai sembrava scritto, costringendo i Red Sox, in vantaggio al decimo inning e ormai ad un passo dalla vittoria, a disputare gara 7 dove New York incredibilmente si impose. Per la quarta volta i Red Sox perdevano il titolo nell'ultima partita della serie finale.

"It's over": la stagione 2004, 2007 e 2013

Nel 2004 i Boston Red Sox iniziarono la stagione suscitando gli apprezzamenti degli addetti ai lavori; nonostante tutto, durante la regular season la squadra risentì di numerosi alti e bassi ma, anche a seguito di una decisiva vittoria il 24 luglio al Fenway Park contro i soliti New York Yankees, i Red Sox si qualificarono per i playoffs grazie alla wild card dell'American League. Nel primo turno affrontarono i campioni della East Division, gli Anaheim Angels, vincendo agevolmente la serie per 3-0 e apprestandosi a incontrare per il pennant ancora una volta gli Yankees che avevano faticato non poco per imporsi sui Minnesota Twins. New York si aggiudicò le prime tre gare, portando la serie sul 3-0 e dimostrando sul campo quella che sembrava una superiorità netta; tuttavia, sospinti dal pubblico del Fenway Park che per l'intera durata delle gare espose dei cartelli con la scritta "We Believe", noi ci crediamo, i Red Sox vinsero gara 4 e 5 in casa, riportando la serie a New York dove impattarono sul 3-3, concludendo in gara 7 una rimonta che li vedrà vincitori per 4-3 nella serie: non era mai capitato nella storia del baseball professionistico che una squadra sotto 3-0 in una serie di playoffs riuscisse a rimontare e a vincere. La "maledizione del Bambino" cominciava a non fare più paura. Alle World Series i Red Sox incontrarono i St.Louis Cardinals, autori di una stagione molto positiva; la squadra di Boston tuttavia dominò la serie e con un secco 4-0 si aggiudicò dopo 86 anni il titolo della Major League Baseball. Ma la storia non finisce qua!. Il 28 ottobre 2007 i Red Sox vinsero il loro secondo titolo negli ultimi 4 anni, ed il terzo negli ultimi 90. In totale, era il settimo titolo della loro storia. Si può parlare ora di una "maledizione inversa" poiché la vittoria nelle World Series 2007 arrivò ancora con un secco 4 a 0 sulla squadra, rivelazione della NL, dei Colorado Rockies. E la storia continua ... Nel 2013 i Red Sox finiscono con un record di 97 vittorie e 65 sconfitte, la prima stagione dal 2007 che vincono l'American League East e la prima stagione dal 2009 in cui si qualificano per la postseason. Boston recupera bene dalla disastrosa campagna del 2012, vincendo 28 partite in più del 2012. Hanno sconfitto i Tampa Bay Rays nelle Division Series e i Detroit Tigers nelle ALCS per avanzare alla loro prima World Series dal 2007 e la terza in nove anni. I Red Sox hanno battuto i St. Louis Cardinals in 6 partite per vincere la World Series del 2013. I Boston Red Sox sono la seconda squadra a vincere le World Series un anno dopo essere finiti ultimi nella loro Division. L'altra squadra che aveva completato questa impresa furono i Twins nel 1991.

Statistiche e Date storiche

La migliore stagione per la franchigia è stata quella 1912 quando i Red Sox chiusero con un record di 105 vinte e 57 perse; la peggiore fu la 1932 con 43 gare vinte e ben 111 perse.
Le apparizione dei Red Sox alle World Series sono dieci: 1903, 1912, 1915, 1916, 1918, 1946, 1967, 1975, 1986, 2004, con sei vittorie, nel 1903, 1912, 1915, 1916, 1918, 2004, 2007.
L'ultima stagione con record positivo della squadra è quella appena conclusa del 2007, in cui i Boston Red Sox hanno chiuso con un record di 96 gare vinte e 66 perse.

Sono trentatré i giocatori ammessi nella Baseball Hall of Fame che hanno militato nei Boston Red Sox:

• Luis Aparicio SS dal 1971 al 1973

• Wade Boggs 3B dal 1982 al 1992

• Lou Boudreau SS dal 1951 al 1952

• Jesse Burkett OF nel 1905

• Orlando Cepeda DH nel 1973

• Jack Chesboro RHP nel 1909

• Jimmy Collins 3B dal 1901 al 1907

• Joe Cronin SS dal 1935 al 1945

• Bobby Doerr 2B dal 1937 al 1944 e dal 1946 al 1951

• Dennis Eckersley RHP dal 1978 al 1984

• Rick Ferrell C dal 1934 al 1937

• Carlton Fisk C nel 1969 e dal 1971 al 1980

• Jimmie Foxx 1B dal 1936 al 1942

• Lefty Grove LHP dal 1934 al 1941

• Bucky Harris MGR nel 1934

• Harry Hooper OF dal 1909 al 1920

• Waite Hoyt RHP dal 1919 al 1920

• Ferguson Jenkins RHP dal 1976 al 1977

• George Kell 3B dal 1952 al 1954

• Heinie Manush OF nel 1936

• Juan Marichal RHP nel 1974

• Joe McCarthy MGR dal 1948 al 1950

• Herb Pennock LHP dal 1915 al 1922 e nel 1934

• Tony Perez 1B dal 1980 al 1982

• Red Ruffing RHP dal 1925 al 1930

• Babe Ruth LHP-OF dal 1914 al 1919

• Tom Seaver RHP nel 1986

• Al Simmons OF nel 1943

• Tris Speaker dal 1909 al 1915

• Ted Williams OF dal 1939 al 1942 e dal 1946 al 60

• Carl Yastrzemski OF dal 1961 al 1983

• Tom Yawkey Owner dal 1931 al 1980

• Cy Young RHP dal 1901 al 1908

I numeri ritirati nel corso degli anni dai Red Sox sono:

• 1 - Bobby Doerr

• 4 - Joe Cronin

• 8 - Carl Yazstrzemski

• 9 - Ted Williams

• 27 - Carlton Fisk

• 6 - Johnny Pesky

14 - Jim Rice

• più il 42 - Jackie Robinson, quest'ultimo direttamente ritirato dalla Major League Baseball nel 1997.

Per tredici volte un giocatore dei Red Sox ha ricevuto il MLB Most Valuable Player award: nella stagione 1912 Tris Speaker, nel 1938 Jimmie Foxx, nel 1946 e nel 1949 Ted Williams, nel 1958 Jackie Jensen, nel 1967 Carl Yazstrzemski, nel 1975 Fred Lynn, nel 1978 Jim Rice, nel 1986 Roger Clemens, nel 1995 Mo Vaughn, nel 2004 Manny Ramirez, nel 2007 Mike Lowell, nel 2008 Dustin Pedroia e nel 2013 David Ortiz.

Per quattro volte un manager dei Red Sox ha ricevuto il MLB Manager of the Year award: nel 1986 John MacNamara, nel 1999 Jimy Williams, nel 2004 e 2007 Terry Francona.

Per cinque volte un giocatore al primo anno dei Red Sox ha ricevuto il MLB Rookye of the Year award: è successo nella stagione 1950 a Walt Dropo, nel 1961 a Don Schwall, nel 1972 a Carlton Fisk, nel 1975 a Fred Lynn e infine nel 1997 a Normar Garciapara.

Nella stagione 1975, Fred Lynn diventò il primo giocatore nella storia delle Major Leagues a conquistare nella stessa stagione i premi di MLB Most Valuable Player award e MLB Rookye of the Year award.

Potrebbe esserci anche un sesto Rookye of the Year per i Boston il seconda base Dustin Pedroia o il lanciatore Daisuke Matsuzaka. A novembre 2007 la MLB annuncierà il fortunato. In attesa ....

Dustin Pedroia è stato eletto Rookye of the Year dell'AL con 132 voti ed è il sesto giocatore a vincere questo prestigioso premio al suo primo anno con i Boston.

Curiosità

La regola che nel corso degli anni i Boston Red Sox hanno seguito nella scelta dei giocatori da ricordare con la cerimonia di ritiro del numero di maglia, prevede due requisiti: il primo è che il giocatore in questione venga ammesso nella Baseball Hall of Fame, il secondo è che il giocatore abbia giocato almeno 10 anni con i Red Sox. Fino al 2000 era previsto un terzo requisito, che richiedeva che il giocatore in questione avesse chiuso la propria carriera nei Sox; fu proprio per questo motivo che, all'ingresso nella Baseball Hall of Fame di Carlton Fisk, giocatore che aveva giocato la sua ultima stagione nelle fila dei Chicago White Sox, i Red Sox dovettero firmare Fisk come assistente general manager con un contratto di un giorno, rendendo la sua carriera ufficialmente chiusa a Boston. Proprio in seguito a questa situazione nacque una discussione nella franchigia che portò alla riconsiderazione della regola, eliminando il terzo dei requisiti e considerando sufficienti solo gli altri due.
Con l'eliminazione del terzo dei requisiti della regola attinente ai numeri da ritirare, altri ex-giocatori dei Boston Red Sox ammessi nella Baseball Hall of Fame ma che hanno concluso la carriera in altre squadre sono stati considerati per questo particolare riconoscimento. In particolare il numero 21 di Roger Clemens e il numero 24 di Wade Boggs, pur non essendo stati ufficialmente ritirati dai Sox, non vengono più assegnati a nessun membro della squadra dal loro ingresso nella Baseball Hall of Fame.

Fino alla fine degli anni novanta i numeri di maglia ritirati erano esposti al Fenway Park in base all'ordine cronologico in cui il ritiro era avvenuto: 9-4-1-8. In questo particolare ordine i numeri erano leggibili anche come una data, 4 settembre 1918, nella indicazione anglosassone 9/4/'18, data della gara uno delle World Series del 1918, le ultime vinte dai Red Sox prima della "maledizione del Bambino". Con l'inizio del nuovo millenio e con i lavori di restauro dell'impianto i numeri furono ridisposti in ordine crescente.

Il Fenway Park, storico stadio dei Boston Red Sox, è famoso per il particolare muro sul settore sinistro del campo, chiamato The Green Monster, il Mostro Verde. Alto più di 11 metri e lungo più di 73 metri, il Mostro Verde fu costruito nel 1934 a sostituzione di un muro protettivo esistente in precedenza. Alla base fu piazzato un tabellone segnapunti manuale che rimase in funzione fino al 1975, anno in cui Fenway Park si dotò di uno più moderno. Nonostante questo il tabellone manuale viene a tutt'oggi usato per l'indicazione dei risultati degli altri campi della MLB.

Il 9 giugno del 1948, contro i Detroit Tigers, Ted Williams batté un fuoricampo di 153 metri, il più lungo mai misurato al Fewnay Park, che si spense nel settore di destra dello stadio. Per ricordare quell'evento, oggi al settore 42, fila 37, posto 21 esiste la Ted Williams' Seat, un'unica sedia rossa in mezzo alle altre, tutte di colore nero.

Reverse the Curse, inverti la maledizione, è un famoso segnale stradale apparso durante i playoffs del 2004 sul Longfellow Bridge, ponte che scavalca Storrow Drive WB poco prima che questa diventi Embankment Drive. Leggenda vuole che il cartello sia "apparso" durante la serie finale della American League conto i New York Yankees, quando il risultato era sul 3-0 per i new yorkesi e i Sox erano ad un passo dalla eliminazione. Dopo la storica vittoria nelle World Series del 2004 il cartello originale venne rimosso durante una apposita cerimonia e donato ai Red Sox, sostituito con un altro corretto che in poco tempo fu modificato nuovamente.

Da qualche anno è in vigore una particolare tradizione al Fenway Park: durante l'ottavo inning viene suonata la canzone "Sweet Caroline" di Neil Diamond. In realtà la canzone non ha nessun particolare riferimento al baseball, né Neil Diamond ha qualche relazione con la squadra di Boston. Semplicemente la tradizione ha preso piede e si è rafforzata durante la stagione 2004, proprio con la vittoria del titolo. "Se non canti Sweet Caroline è come se non fossi alla partita" è una delle convinzioni più diffuse tra i tifosi dei Sox.

Nel 2005 uscì nelle sale cinematografiche il film L'amore in gioco dei fratelli Peter e Bobby Farelly, conosciuto negli Stati Uniti con il titolo Fever Pitch. Il film, interpretato da Drew Barrymore e Jimmy Fallon, narra la storia di Ben, un insegnante di scuola con una sfrenata passione per i Boston Red Sox. Basato sul libro omonimo di Nick Hornby, di cui era già uscita una versione cinematografica più fedele all'originale, conosciuta in Italia come Febbre a 90°, il film presenta numerosi filmati girati al Fenway Park durante la stagione 2004. Inizialmente la sceneggiatura prevedeva un finale agrodolce con il prevedibile lieto fine della storia d'amore e l'ennesima sconfitta dei Red Sox durante la post-season; tuttavia i sorprendenti playoffs dei Red Sox e la vittoria finale nelle World Series portarono i fratelli Farrelly a riscrivere il finale con l'inclusione di scene girate durante la serie finale e durante i festeggiamenti per le vie di Boston.

Numerose sono state negli anni le apparizioni e i riferimenti alla squadra dei Red Sox e al Fenway Park nei film e nelle serie televisive statunitensi. Tra le altre si ricordano il film Will Hunting - Genio ribelle e le serie Ally McBeal, i Griffin Futurama e Lost.

La casa dei Boston Red Sox

Fenway Park è il più vecchio stadio ancora in uso in Major League.

Aperto nel 1912, è una miniera di storia per quanto riguarda il baseball contemporaneo e porta con sé il fascino dei ballpark retrò assieme alle migliorie che durante gli anni sono state aggiunte.

I Red Sox iniziarono a giocare all'Huntington Avenue Grounds nel 1901, ma l'insicurezza del vecchio parco portò l'allora owner John Taylor a costruirne uno nuovo nella “Fens” di Boston.

Da notare che i Calzini Rossi non hanno sempre avuto il solito nome: si iniza nel 1901-1902 col nome Somersets, seguito nel 1903-1906 da Pilgrims ed infine dal 1907 ad oggi, il nome che tutti conosciamo.

La costruzione inizia nel 1911 per finire l'anno successivo, data di apertura 20 Aprile 1912.

La prima versione di Fenway presenta i posti a sedere organizzati su un unico livello, per un totale di 27,000, alcuni di essi in legno e molti con la vista ostruita. Questo purtroppo è il prezzo da pagare per un ballpark certamente affascinante, ma che paga per la sua veneranda età.

Per nominare una star del baseball che ha toccato il terreno di Fenway, Babe Ruth è stato uno dei pochi lanciatori che ha trovato a Boston un terreno a lui congeniale, il campo è infatti conosciuto per la sua ostilità verso i left-handed pitchers.

Proprio parlando di Babe Ruth, la mente va ad un momento buio vissuto a Boston: gli anni '20. In quegli anni infatti Babe Ruth (LHP, record in carriera 94 wins, 46 losses .671 winning percentage) fu ceduto ai New York Yankees ed il team dei Red Sox venduto.

Un incendio nel 1926, inoltre, rovinò buona parte delle strutture in legno situate nella parte sinistra lungo la foul line. Non era un bel periodo.
Tuttavia, negli anni '30 le cose cambiarono e nel 1933 Thomas A. Yawkey comperò il team.

Iniziano così una serie di cambiamenti apportati direttamente al campo, come il ripristino delle strutture di legno andate distrutte nell'incendio, ricostruite in cemento, l'aumento dei posti da 27,642 a 33,817.
Ma quello che fu aggiunto fu un muro alto 37 piedi e lungo 240 nel left field, riempito di pubblicità, anch'esso vittima di un incendio e poi ripristinato.

Nel 1934 vi fu aggiunto uno scoreboard che è ancora lo stesso ed è manuale!
E' uno degli ultimi due rimasti in Major League, l'altro è a Wrigley Field, Chicago, Illinois.

Nel 1936 venne aggiunta una rete nella parte sinistra, per evitare che le palle rompessero i vetri dei vicini negozi.

Nel 1947, la pubblicità nel left field fu tolta ed il muro fu pitturato di verde: il Green Monster. Inoltre uno scoreboard digitale è stato aggiunto, lasciando quello manuale come ricordo degli anni passati e non più usato per le partite di MLB.

Cambiamenti minori sono stati apportati (come lo spostamento dei dugout) per fino ad arrivare ad oggi, con il ballpark che può ospitare ben 38,000 tifosi.

Fenway rimane, assieme al Wrigley Field, uno dei due stadi “classici” del baseball, infatti i Red Sox hanno intenzione di rinnovare profondamente il parco, senza costrurne una nuovo, proprio per preservare un pezzo di storia del National Pastime.

I dati

Luogo 4 Yawkey Way Boston, Massachusetts 02215
Inizio lavori Settembre 25, 1911
Apertura April 20, 1912
Propritario Fenway Sports Group
Superficie Erba
Architetto Osborn Engineering Corp.
Possessori
Boston Red Sox ( MLB ) (1912–adesso)
Boston Redskins (NFL) (1933–1936)
Boston Yanks (NFL) (1944–1948)
Boston Patriots (AFL) (1963–1967)
Boston Braves ( MLB ) (1914–1915)

Capacità

35,000 (1912) • 34,824 (1953) • 33,524 (1965)
33,513 (1977) • 34,182 (1989) • 34,218 (1993)
33,557 (2001 giorno) • 33,993 (2001 notte)
33,871 (2003) • 38,395 (2006 giorno) • 38,805 (2006 notte)


Le dimensioni


Left Field: 310 ft (94.5 m)

Deep Left-Center: 379 ft (115.5 m)

Center Field: 390 ft (118.8 m)

Deep Right-Center: 420 ft (128 m)

Right Field: 383 ft (115.8 m)

Right Field: 380 ft (114.9 m)

Right Field: 302 ft (92 m)

Backstop: 60 ft (18 m)

Le caratteristiche

Ha l'area di foul piccolissima. Questo significa che le popup che potrebbero essere prese in zona foul vanno a finire sugli spalti, dando al battitore un'altra possibilità.

Il Green Monster crea una zona d'ombra che rende difficile la vita agli outfielders, facilitando la conversione di fly-balls in extra-base hits.

I right-handed hitters sono favoriti in homers, ma anche i left-handed che sanno spingere la palla a sinistra possono trovarsi al loro agio.

I lanciatori invece che lanciano spesso fly-balls possono invece trovarsi male in quanto a Fenway molte fly balls si possono trasformare in valide.

 

 

La vera storia del lancio "spitball" (palla sputata)

Lo "spitball" è un lancio del baseball (dal 1921 dichiarato illegale) in cui la palla viene modificata con l'applicazione di sputo, grasso, vaselina, o qualsiasi altra sostanza che ne alteri la traiettoria. Questo tipo di lancio presenta un'ulteriore sfida per il battitore perché provoca dei movimenti atipici alla palla durante la sua traiettoria a causa della resistenza dell'aria e del peso su un lato della stessa provocato dalla sostanza applicata. Nomi alternativi per lo spitball sono "mud ball", "shine ball" e "emery ball", anche se tecnicamente una palla smeriglio, che è quella in cui la palla viene abrasa, è più o meno uguale alla palla tagliata, cioè incisa da un taglio.

La Storia

L'invenzione dello spitball fu popolarmente accreditato a diversi giocatori, tra i quali Elmer Stricklett e Frank Corridon. Parecchie testimonianze ricordano però che furono in tanti a sperimentare le varie versioni dello spitball, e tutti nella seconda metà del 19 ° secolo, ed è quindi impensabile che un solo pitcher abbia inventato questo lancio. Ed Walsh, tuttavia, è certamente tra i più popolari creatori dello "spitball". Walsh dominò l'American League dal 1906 al 1912 principalmente sulla forza del suo spitball, e i pitcher della lega copiarono il suo metodo o inventarono delle varianti. Il drammatico aumento della popolarità di questo "anomalo lancio" alimentò una grande quantità di polemiche nel primo decennio del 1900 facendo nascere un fronte per l'abolizione dello spitball. Nella sua autobiografia, Ty Cobb scrisse che i "freak pitches" furono banditi quando i proprietari, opportunamente interessati, decretarono che si stava battendo troppo pochi homerun. C'erano stati però anche molti problemi di sicurezza con lo spitball, in particolar modo, quando i lanciatori cominciarono ad utilizzare del tabacco masticato sulla palla. Il 16 agosto del 1920, Ray Chapman, eccellente shorstop dei Cleveland Indians, morì colpito alla tempia da un lancio sottomarino di Carl Mays degli Yankees. Molti reputarono che il lancio di Mays fosse stato una "palla sputata". Questo tragico episodio decretò il definitivo bando dello spitball. Già nell'inverno tra il 1919 e il 1920, i managers votarono il bando parziale dello spitball, consentendo a ciascuna squadra di designare al massimo due pitcher a cui sarebbe stato consentito di poterlo lanciare. Alla fine della stagione del 1920, lo spitball fu bandito definitivamente tranne che per gli "spitballers" , che dipendevano essenzialmente da questo lancio, a cui fu consentito di utilizzarlo legalmente fino alla fine della loro carriera. A diciassette spitballers fu concessa l'esenzione. Burleigh Grimes fu il lanciatore che potè utilizzarlo più a lungo, chiudendo la carriera nel 1934. L'elenco completo: Doc Ayers - Detroit Tigers (che giocò fino al 1921); Ray Caldwell - Cleveland Indians (1921); Stan Coveleski - Cleveland Indians (1928); Bill Doak - St. Louis Cardinals (1929); Phil Douglas - New York Giants (1922); Red Faber - Chicago White Sox (1933); Dana Fillingim - Boston Braves (1925); Ray Fisher - Cincinnati Reds (1920); Mary Goodwin - St. Louis Cardinals (1934); Dutch Leonard - Detroit Tigers (1925); Clarence Mitchell - Brooklyn Dodgers (1932); Jack Quinn - New York Yankees (1933); Allan Russell - Boston Red Sox (1925); Dick Rudolph - Boston Braves (1927); Urban Shocker - St. Louis Browns (1928), e Allen Sothoron - St. Louis Browns ( 1926).

La Tecnica

Sebbene lo spitball sia ormai vietato a tutti i livelli, dai professionisti al baseball amatoriale, qualcuno ancora oggi tenta di usarlo in violazione al regolamento (nel 1942, Leo Durocher, allora manager dei Brooklyn Dodgers, multò Bobo Newsom per aver lanciato uno spitball dichiarando letteralmente "mi ha mentito al riguardo"). Generalmente, viene nascosto il lubrificante dietro il ginocchio o sotto il frontino del cappellino. Altri ancora mettono il prodotto nel guanto e ci sputano dentro così la palla viene unta. Un'altra tattica è quella, utilizzata da diversi pitchers, di inzuppare i capelli con acqua prima di salire sul monte, e di toccarsi i capelli prima di lanciare. Qualche lanciatore incollò un pezzo di carta vetrata su una delle dita della mano con cui lanciava, grattando la palla per ottenere un effetto simile allo spitball. Ted "Double Duty" Radcliffe confessò che nascondeva un pezzo di limetta di carta smeriglio nella fibbia della sua cintura in modo da poter grattare la palla o addirittura tagliarla. Nel 1987 Joe Niekro, lanciatore dei Minnesota Twins, durante i play off dell'AL fu sospeso per 10 giornate, quando l'umpire Steve Palermo scoprì che aveva un limetta per manicure nascosta nella tasca posteriore. Niekro si difese, dicendo che la limetta gli serviva per limarsi le unghie nel dugout, una prassi comune tra i pitcher di knuckleball . Una settimana più tardi, il lanciatore Kevin Gross dei Philadelphia Phillies fu scoperto con una carta vetrata nel guanto e sospeso. Uno dei più famosi spitballers era Preacher Roe, che giocò per il Brooklyn Dodgers negli anni '50. Roe era celebre sia per la sua capacità di controllare lo spitball, come pure a lanciarlo senza essere scoperto. Un'altro famoso utilizzatore dello spitball fu Gaylord Perry, che intitolò la sua autobiografia "Me and the Spitter". Egli racconta che fiutava peperoni rossi per far colare il naso e che metteva della vaselina sulla sua cerniera perché così gli umpires non sarebbero mai andati a controllare. Un giornalista sportivo ironizzò sul fatto che "Gaylord Perry, 3.67 ERA vita, fu principalmente uno "sputatore".

Legal Spit

Il nome "dry spitter" è talvolta utilizzato per descrivere un lancio che si muove come uno spitball però senza saliva, come il "forkball" o lo "split-finger fastball", quest'ultimo viene anche denominato "splitter" giocando sulla somiglianza con lo "spitter". A volte viene utilizzato nello slang per indicare il knuckleball.

3 agosto del 1987 Joe Niekro viene espulso dall'arbitro Steve Palermo